Ricostruire con l’arte. Il progetto Corale nei luoghi del terremoto
È iniziata il weekend del 15 giugno la grande festa di “Corale”, progetto artistico che nasce a Preci, paese colpito dal terremoto del 2016. I prossimi appuntamenti con i riti di “Corale” sono dal 29 giugno al 1° luglio e dal 13 al 15 luglio. Cosa vuol dire portare l’arte in un territorio distrutto da un cataclisma naturale come il terremoto che ha devastato la zona di Norcia e Amatrice? Ce ne parla Leonardo Delogu, membro di DOM.
Corale. Un lungo progetto in uno dei paesi vittime del terremoto del 2016. Preci è un paese più piccolo di Norcia e Amatrice. Di 700 abitanti ora ne sono rimasti 250.
Come è nato il progetto? Che relazione si è creata fra voi come gruppo curatoriale e con la popolazione?
Il desiderio di fare qualcosa per questi luoghi, che per me portano una memoria d’infanzia, è stato immediato. Qualcosa che non fosse una produzione, un prodotto, uno spettacolo. Dove il dramma è profondo – il senso di perdita stravolge la vita fino allo sradicamento ‒, l’unica via possibile è utilizzare lo strumento artistico per entrar in relazione e aprire delle domande o sanare delle ferite. Ho avuto l’appoggio del Teatro Stabile dell’Umbria. Avevo bisogno di un gruppo di persone, che si è creato in modo contestuale. Con Zoe di Foligno, la compagnia Opera Bianco, Carolina Balucani (drammaturga e regista) e poi Mael Veisse, architetto. Ci siamo messi in macchina e abbiamo viaggiato fino a marzo 2017, non abbiamo fatto nient’altro che andare ne luoghi, osservare, parlare con le persone, stare in silenzio, cercare di assorbire, capire. La situazione era esplosa, c’era panico e una dimensione super mediatizzata.
E le priorità all’inizio erano anche molto materiali.
C’era questa urgenza di portare da mangiare, dar da dormire, e noi invece eravamo portatori dell’immateriale… ci si preoccupa molto della ricostruzione materiale ma poi questi luoghi sono da abitare. Sono luoghi che sono destinati allo spopolamento, per tendenza del mondo ancora prima che a causa terremoto. In che modo l’arte può inserirsi in questo contesto? Che ruolo può avere? A un certo punto in Belgio l’incontro con Barbara Raes, ex direttrice di Vooruit, di BUDA… Con lei abbiamo capito che la dimensione rituale era l’aspetto del teatro su cui potevamo lavorare per aiutare queste comunità nel superamento del trauma.
E in pratica come vi siete mossi?
A Preci, da maggio 2017, cominciammo una residenza di un mese, accampandoci. La costruzione di un accampamento, dimensione tipica del lavoro di DOM, diventa uno strumento utile dove non c’erano case né alberghi. Abbiamo iniziato con piccoli gesti. I bambini hanno convinto i genitori. Abbiamo capito l’importanza del canto e delle feste per questa comunità, quindi ci siamo infiltrati nelle loro feste con le nostre musiche. Non abbiamo trovato un territorio depresso, ma resistente e poco avvezzo alla compassione.
Anche da parte loro, quindi, c’era fiducia nei vostri confronti…
Si è costruita nel tempo. Erano abituati a una presenza intermittente, di chi porta l’aiuto e se ne va. Mentre noi stavamo lì, nei bar, a parlare con le persone. Abbiamo creato un giardino in uno spazio abbandonato, costruito 100 sedie, dei tavolini. Un invito ad abitare lo spazio pubblico, incontrarsi, stare insieme. Si viveva in un vero stato di eccezione. Il 17 giugno abbiamo fatto con loro una grande festa, una tavolata in piazza, 150 persone a cena, le donne del paese hanno cucinato, i dj-set. È stato bello e sorprendente per il grado di partecipazione ottenuta. In inverno, grazie al finanziamento del MiBACT, siamo riusciti ad attivare la seconda fase, quella fatta di laboratori: danza, teatro, video, rivolti ai bambini ma anche a gruppi misti.
Il progetto si inscrive nel lavoro che da anni conduci sull’idea di terzo paesaggio, aprendo il concetto di paesaggio alla comunità.
Sì, il paesaggio è l’insieme delle forze naturali e umane, un’ibridazione tra l’artefatto e la natura. Qui la dimensione della comunità è molto percepibile. Dove tutti sanno di tutto, in questa dimensione di relazione claustrofobica, abbiamo scoperto allo stesso tempo un universo valoriale interessante, legato ai concetti di solidarietà, mutuo aiuto ed economia circolare. Che bella scoperta! Non sono nostalgico, ma qui c’è qualcosa che riguarda il modo in cui si sta nella comunità e la responsabilità che ne deriva, che sarebbe utile studiare per rilanciare il tutto in una prospettiva contemporanea.
A Preci ti sei fermato per un tempo lungo, più lungo rispetto agli altri progetti a cui lavorato finora. Un permanere e un tornare durato quasi due anni. Sentivi il bisogno di essere stanziale, di lavorare con un territorio, di approfondire un discorso legato a una comunità reale e possibile?
Assolutamente sì. Per il nostro mondo io sono “quello che cammina”. Dimensione che riconosco e mi appartiene, ma per me il camminare è solo uno strumento per osservare il nostro tempo. Ho bisogno di comunità, perché il mio ragionamento è tra la stanzialità e il nomadismo. La dimensione del tempo lungo mi riguarda, mi permette di sottrarmi ai tempi di produzione del mercato.
Cosa lasciate a queste comunità, cosa avete imparato e come pensate di poter continuare, qui o altrove?
Ho imparato un sacco di cose, in un posto talmente estraneo alle modalità di vita quotidiana che mi/ci appartengono. Ho imparato a stare nella comunità, ho esperito una dimensione nuova dell’ascolto, dello stare senza avere un’intenzione forte. Ci sedevamo su una panchina e aspettavamo che qualcuno si sedesse vicino e iniziasse a parlare per primo. Un grande allenamento al “non fare”, che aiuta l’installarsi della relazione. L’obiettivo per me è continuare qui, perché abbiamo una responsabilità nei confronti di questa comunità. Non sarà facile. Siamo in un mondo in cui anche le istituzioni hanno costante bisogno di novità.
E cosa avete portato e porterete in questi giorni di festa?
Portiamo qui dei lavori e dei linguaggi molto lontani dalle abitudini di questa comunità, ad esempio l’installazione di Zimmerfrei, Family Affair, in cui le famiglie di tutto il mondo raccontano le loro storie. Mariangela Gualtieri leggerà le sue poesie nelle case. Il Teatro delle Briciole presenterà Con la bambola in tasca, loro spettacolo storico, che interpreta le questioni del rituale. Il progetto più impegnativo è quello del Teatro delle Ariette, Estate punto fine, presentato a Santarcangelo nel 2004: la cura di un orto, una parata funebre con testi di Pasolini che termina con una grande cena con i prodotti dell’orto. C’è poi il lavoro di Christina Stadlbauer e Gosie Vervollsen, con un laboratorio sul kintsugi, l’arte giapponese di riparare gli oggetti rotti attraverso l’oro e l’argento, e sulla pratica di creare paesaggi attraverso l’arte culinaria per poi mangiarli, “integrandoli”. Insieme daranno vita a una grande cena in piazza. Contemporaneamente arrivano a compimento tutte le esperienze portate avanti con i laboratori, come il coro del paese.
E poi c’è il museo delle cose belle.
Chiediamo agli abitanti di mettere a disposizione un oggetto sacro con la propria storia, per chiederci in che modo nel contemporaneo le persone reinterpretato e rivivono la dimensione del sacro. Questi oggetti, sparpagliati nelle case e nelle attività produttive, sono mappati e gli spettatori dovranno entrare nei luoghi privati per osservarli e farsene raccontare la storia. Nel Museo dell’innocenza Pamuk scrive che bisogna smettere di fare musei che raccontino la Storia e tornare a raccontare le storie delle persone minori. Non la celebrazione dei popoli ma delle minoranze. È bello che un paese diventi museo, sottolineando la dimensione comunitaria. Staremo a vedere!
‒ Chiara Pirri
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