Federica Boràgina (1986) è dottoranda in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Torino. Collabora con la cattedra di Storia dell’arte contemporanea all’Università Cattolica di Milano e dal 2011 al 2017 ha lavorato come assistente curatore con la collezione d’arte del Novecento di Intesa Sanpaolo. I suoi studi sono principalmente dedicati alle vicende storico artistiche degli Anni Sessanta e Settanta e all’editoria d’artista. Giulia Brivio (1981), laureata in Scienze e Tecnologie delle Arti all’Università Cattolica, dal 2005 al 2013 è stata responsabile dell’Archivio Artisti Italiani di Viafarini DOCVA (Milano). Dal 2012 al 2015 è stata Project Manager di Fiorucci Art Trust (Londra), per cui ha gestito la residenza per artisti internazionali Volcano Extravaganza (Stromboli). Attualmente collabora con la casa editrice Artphilein Editions e con la libreria Choisi (Lugano), specializzate in libri d’artista e fotografici. Federica e Giulia insieme sono Boîte Editions, associazione culturale non profit fondata nel 2009 che si occupa di editoria d’arte. Muovendo dall’omonima rivista “in scatola”, il dialogo prende forma attraverso riflessioni sull’accessibilità e la condivisione dell’arte, sulla sua teorizzazione, sul tempo per apprezzarla e le possibilità della scrittura.
Uno degli aspetti che contraddistingue Boîte, il vostro progetto editoriale attivo ormai da quasi dieci anni, è la scelta di rendere l’arte accessibile attraverso i materiali che mettete a disposizione con la vostra rivista.
L’arte contemporanea richiede spesso capacità di osservazione e selezione, soprattutto perché può facilmente diventare esclusiva. Fin dall’inizio, abbiamo proposto una alternativa a questa dimensione lavorando con risorse scientifiche e adottando un approccio divulgativo basato sull’offerta di strumenti che possono facilitare l’avvicinamento all’arte e l’accesso ai contenuti.
Qual è stata la scintilla per l’avvio di questo vostro modo di lavorare sull’arte?
Prima di tutto, si è trattato di seguire la casualità. Nonostante siamo cresciute a due vie di distanza nella stessa città, ci siamo incontrate per caso a Milano e così è stato anche per la rivista: è nata da una coincidenza. La scintilla c’è stata poi, quando ci siamo accorte di non essere soddisfatte delle modalità di scrittura legate alla diffusione delle riviste online e di come veniva affrontata l’attualità dell’arte contemporanea. L’idea di un periodico, di produrre qualcosa che si ripetesse nel tempo è nata in quel frangente proprio perché, mentre anche noi scrivevamo su queste riviste, stavamo già maturando l’esigenza di un cambiamento.
Avvicinarsi all’arte e accedere ai contenuti, per chi sceglie Boîte vuol dire prima di tutto interagire con i materiali. Perché avete scelto di fare una rivista in scatola?
Tutto ciò che possiamo trovare online non lascia niente tra le mani. Certo, si possono fare ricerche significative e reperire molti materiali: immagini, video, testi… Ma il nostro interesse è stato fin da subito un altro: realizzare qualcosa che richiedesse un’attenzione particolare e che favorisse esattamente l’interazione con i materiali. L’arte ha bisogno di un suo tempo per essere capita e apprezzata. Così abbiamo pensato che la rivista dovesse tradurre questa esigenza direttamente nella sua forma. Nella scatola ci sono poche cose selezionate. Chi la prende, la apre e consulta i materiali che contiene si prende un proprio tempo per avvicinarsi all’arte. Insieme ai contenuti, la scatola offre anche un tempo per la lettura. In fondo, quel che essa custodisce può essere letto e riletto anche in un secondo momento.
La scatola è anche un riferimento materiale che appartiene all’arte contemporanea. Essa è, per così dire, un simbolo del nascondimento caro alla poetica duchampiana.
Sì, l’idea della scatola è legata a una fortuita coincidenza: la lettura degli scritti di Marcel Duchamp che ha permesso di portare alla luce una domanda che è poi diventata fondamentale per il lavoro con la rivista: ha senso scrivere di arte? Si è trattato di una suggestione critica che nasceva da una incomprensione di base e che ha suscitato una riflessione su che cosa voglia dire occuparsi di arte, su come lo si possa fare, sulle stesse possibilità della scrittura.
Il problema però non è legato solo al modo in cui si può ragionare sull’arte ma anche alla sua natura.
Assolutamente. Un altro riferimento che per noi è stato decisivo proviene dalla riflessione teorica di Thierry de Duve: l’idea dell’opera d’arte come gomitolo e della sua esegesi come un lavoro di estrazione di ciascuno dei suoi fili. Nel nostro progetto non c’è la pretesa di esaurire un argomento. Piuttosto c’è la precisa scelta di procedere con una indagine critica che si basa esattamente sulla scelta di un singolo filo tra i tanti possibili, che viene individuato ed estratto dal gomitolo. Questo filo per noi diventa una chiave di lettura, un tema sviluppabile con riferimenti essenziali e scelti in modo tale da offrire alcune direzioni di approfondimento.
Da un punto di vista operativo, questa riflessione teorica come influenza gli sviluppi delle vostre attività con la rivista?
In diversi modi. Per esempio ricade sulla selezione, la scelta e l’offerta dei temi che affrontiamo. Perché i contenuti siano accessibili, è infatti importante essere coscienti di quanto il lavoro di interpretazione e di critica sia squisitamente parziale e soggettivo. Per noi questo è fondamentale. È un po’ come fare autocritica prima di lavorare sulla critica. Allo stesso tempo, proprio per questa ragione, è altrettanto importante non cadere nell’autoreferenzialità. Non si tratta di imporre una visione o una lettura ma di offrire delle chiavi di lettura, degli strumenti per iniziare a srotolare il gomitolo.
Soffermiamoci su queste chiavi di lettura e consideriamo gli argomenti custoditi nelle scatole.
Ogni numero di Boîte nasce dalla necessità di poter approfondire un pensiero su un certo tema dell’arte, su taluni aspetti del lavoro degli artisti, su determinate riflessioni critiche e teoriche… Questa necessità è stata decisiva per scegliere gli argomenti che abbiamo proposto nei numeri della rivista. Il primo livello che abbiamo individuato è stato quello delle tecniche. In seguito ci siamo soffermate sulla possibilità di chiarire il tema della consistenza dell’arte e della sua visibilità – i temi dei processi, della velocità e del nascondimento sono tutti legati alla concretezza delle opere. Gli argomenti successivi sono considerabili come una sorta di continua indagine che sviluppiamo lavorando, per così dire, da una parte e dell’altra della stessa medaglia – questo vale, per esempio, per il numero sulla documentazione (boîte #17) e per l’ultimo sulla non documentazione (boîte #18).
Che idea avete dei materiali che offrite a chi sceglie Boîte?
A un primo sguardo, potremmo considerarli come strumenti messi a disposizione di chi, a seconda della propria sensibilità e dell’interesse che ha per l’arte, potrà servirsene nel modo che ritiene più opportuno. Guardandoli con più attenzione, li vediamo come delle occasioni per comprendere meglio che cosa fa un artista, per esaminare una poetica, approfondire un certo tema dell’arte, per elaborare una idea, per aprirsi a nuove prospettive sulla contemporaneità. Tutto questo attraverso dei semplici fogli, stampati in bianco e nero su carta riciclata, conservati in una scatola.
Il vostro sguardo sull’arte si contraddistingue per essere in continua mobilità. Come mostrano i numeri di Boîte, e allo stesso tempo anche la struttura della rivista, il vostro itinerario teorico segue direzioni diverse: dal piano della produzione artistica a quello della sua ricezione, dalla critica alla riflessione storica…
Uno dei presupposti che guida il nostro lavoro è che non sia possibile occuparsi di arte contemporanea senza conoscere la storia e la storia dell’arte. La linea editoriale della rivista – tanto la struttura impostata su rubriche quanto la selezione stessa dei temi affrontati – mira a dare un peso specifico alla contemporaneità legata alla storia per sottolineare la continuità tra i due ambiti. Questo per noi vuol dire anche lavorare in modo da poter mantenere attiva quella mobilità che hai riconosciuto.
In virtù di questo vostro approccio, attraverso l’offerta di risorse teoriche e occasioni, coltivate anche la possibilità di ampliare le esperienze che si possono fare con l’arte.
Il contatto con l’arte, qualsiasi esso sia, è dal nostro punto di vista l’inizio di una nuova relazione con quello che ci sta intorno. L’arte permette di guardare il mondo in modo diverso. Essa offre molteplici possibilità per il pensiero, prospettive inaspettate sul quotidiano e su di noi. L’esperienza dell’arte favorisce un continuo modo di cambiare sguardo che, alla fine, può diventare anche possibilità di cambiare le cose.
Come si concilia la questione dell’arte come insieme di possibilità di condivisione sociale e culturale con la sua potenziale teorizzazione?
Spesso quando si affronta questo quesito si cerca di trovare una “posizione giusta” per poter formulare una possibile risposta. Così facendo, però, ci si dimentica che anche il critico è un osservatore. Anche se è chiamato a formulare un giudizio che mira ad avere un peso teorico diverso da quello di altri osservatori, anche lui è pur sempre un fruitore dell’arte. Persino un artista che volesse prendere le distanze da qualsivoglia riflessione teorica commetterebbe un errore di metodo, poiché in fin dei conti anche lui è chiamato a lavorare sull’opera da prospettive diverse – compresa quella teorica. Per arrivare a un certo livello di comprensione dell’arte è necessario un apparato teorico. Tuttavia, questo non significa avere la pretesa di capire a tutti i costi, perché così facendo si complica la percezione che possiamo avere dell’arte, si interferisce con l’esperienza che si può fare di essa.
Considerando il vostro lavoro con la rivista, mi sono fatto l’idea che la dimensione editoriale e quella artistica siano talmente intrecciate che l’una continua a trasformarsi nell’altra. Che cosa ne pensate?
Fare una rivista, sviluppare un progetto editoriale, per noi non è poi così diverso dal pensare a una mostra. Si tratta di selezionare gli artisti, scegliere che cosa esporre, in che modo lavorare sugli spazi ecc. Abbiamo scelto il formato della scatola proprio perché esso incarna al meglio questa operatività progettante che ci guida in entrambi i casi. Da questo punto di vista la scrittura è fondamentale; essa è il principale mezzo per realizzare le nostre “mostre in scatola”. Resta però che se il progetto editoriale si rivela come progetto curatoriale, tale esito è frutto delle evoluzioni del lavoro e non tanto di una nostra scelta prestabilita.
Fare mostre in scatola per voi vuol dire anche ampliare la portata di quella ispirazione duchampiana dalla quale trae origine il vostro progetto editoriale.
In parte è così, ma ci sono due aspetti importanti da considerare. Duchamp è sempre presente nella misura in cui la sua influenza è stata decisiva per tracciare una linea che poi abbiamo seguito. È una delle nostre guide per l’indagine di molti dei lavori e dei periodi della produzione artistica contemporanea. Ma, a differenza di Duchamp, che nei suoi scritti su Le Grand Verre contenuti nella Boîte verte non spiega ma complica la riflessione sul suo lavoro, il nostro interesse è invece che i contenuti delle scatole siano chiari e accessibili. Anche se l’arte contemporanea può essere estremamente complessa, esclusiva e persino autoreferenziale, la scrittura deve comunque mantenere come primo obiettivo la chiarezza.
‒ Davide Dal Sasso
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