Scultura e immaterialità. Dialogo con Marcello Tedesco
Un cantiere in corso – nella nuova sede della galleria Arrivada a Milano – e la mostra d’apertura, affidata a Marcello Tedesco, a cura di Samuele Menin. Abbiamo intervistato l’artista bolognese classe 1979 per analizzare insieme la mostra e le sue componenti.
Cosa rappresenta per te la scultura?
La scultura è per me oggi un’attività che riguarda sostanzialmente una dimensione immateriale, il che sembrerebbe un paradosso. Come scultore la materia con la quale lavoro è di fatto il pensiero: il processo che utilizzo consiste nell’eliminare dal pensiero quanto di già codificato e culturale esso contiene, per cercare un rapporto non mediato con l’inconoscibile abissale che chiamiamo realtà.
È quindi il contrario di un atteggiamento ideologico, dove dati certi presupposti si cerca di farli coincidere forzatamente col contesto. Per fare un esempio, il mio atteggiamento è simile a quello di qualcuno che fissa con ostinazione uno spazio buio dove niente è visibile, ma lasciando gli occhi abituarsi all’oscurità iniziano ad affiorare forme che prima non erano visibili, né quindi concepibili.
Questo è per me l’essenza dell’atto creativo, il lavoro sul pensiero, sulla forma e sul linguaggio, il nodo sul quale converge tutta la mia concentrazione. È nel rapporto con questo inconoscibile, che pur mostrandosi si sottrae, dove la mia idea di scultura si radica.
Per me essere un artista vuol dire non tradire questa enorme possibilità di conoscere cose nuove, che permettano di pensare e realizzare una nuova idea di vita, sia in termini individuali che collettivi.
Mi parli di pensiero e quindi di un qualcosa di pregnante e insieme etereo. Come si concilia questa tua riflessione con la materialità della scultura reale?
La materia, al di là di come ognuno di noi la considera, è di fatto una vibrazione, inoltre se non esistesse la luce non ci sarebbe alcuna materia. Si potrebbe dunque dire che l’essenza della materia sia in realtà la luce, e il tempo, cioè quanto di più etereo esprima la realtà. Il lavoro di scultore, per come lo intendo io, è avere un’esperienza reale di cos’è la materia, oltre gli assunti conosciuti e in alcuni casi equivoci, se non addirittura errati. Inoltre quello che a me interessa molto è rendere il pensiero una forma di scultura, esplorare questa possibilità mi emoziona. Il fare manufatti è un’estrinsecazione di questo processo. Fare una scultura immateriale, fare una scultura con l’antimateria…
Il percorso di questa nuova mostra è immersivo e fa emergere il carattere vivo e processuale delle opere, che hanno una vita propria all’interno dello spazio espositivo. Com’è nato questo progetto e com’è strutturato?
Il progetto è nato grazie all’iniziativa di Samuele Menin e alla lungimiranza della Galleria Arrivada, che hanno pensato al mio lavoro per inaugurare l’attività della nuova sede a Milano. Il fatto di pensare a una mostra in uno spazio ancora in via di ristrutturazione ci è sembrata una sfida interessante che potesse fare emergere bene gli sviluppi della mia ricerca. Soprattutto quelli connessi all’idea di scultura come organismo. Lo spazio difatti è stato trattato come se fosse qualcosa di vivo e le varie azioni su di esso tendevano a evidenziare questo aspetto. Ad esempio le pareti della prima sala della galleria sono stata trattate con cinquanta chili di sale nebulizzato. Se a livello visivo è poco percepibile, a un altro livello il sale agisce come una sorta di silenziosa forza colonizzatrice che innesca delle reazioni su tutte le opere presenti nella sala, velocizzando ad esempio lo scioglimento del cloruro di calcio, ossidando il ferro, corrodendo la pedana in cemento e così via.
Potresti entrare ancor più nel merito della struttura della mostra?
La struttura della mostra è sintetizzata dal titolo Megaloschemos, il grande schema a cui faccio riferimento è quello collegato alla vita dell’uomo. Desidero parlare dell’essere umano senza però cadere in una dimensione di pura rappresentazione culturale, utilizzando cioè un linguaggio già codificato, bensì parlare della vita usando il linguaggio stesso della vita. Ad esempio ci sono tre elementi principali che ho utilizzato in questa mostra in riferimento all’essere umano. Il primo è il ferro, che è connesso al sistema circolatorio e quindi al sangue, al calore. Il secondo è il sale, che è collegato al cervello e all’attività del sistema nervoso. Infine il calcio, una delle sostanze che compongono le ossa, che sono la parte di struttura dell’essere umano, quella più collegata al mondo minerale. Infine un altro aspetto importante è quello riferito al tempo, ovvero ho cercato di creare un dispositivo che lo rendesse presente, percepibile, addirittura palpabile. Personalmente in alcuni momenti ho avuto una sorta di vertigine guardando tutto questo accadere.
Ripercorriamola secondo l’ordine delle sale.
La mostra è suddivisa in tre differenti ambienti, ognuno dei quali è stato trattato in maniera particolare per creare un habitat dedicato per ognuna delle installazioni presenti in mostra. Si parte dalla prima sala dove assistiamo a un progressivo dissolvimento delle sculture in cloruro di calcio. La forma solida con la quale siamo abituati a pensare la scultura diventa in questo caso liquida e infine gassosa quando il liquido presente nelle vasche di acciaio evapora nell’aria. In questo caso la scultura non è più l’oggetto ma il processo che avviene sotto gli occhi dello spettatore. È come se in un tempo molto breve assistessimo al compiersi di un ciclo vitale.
La seconda sala al piano interrato presenta una video installazione, dove la scultura è vista attraverso il linguaggio del video, questo per evidenziare il suo rapporto con la luce e con il tempo. I video mostrano quattro pietre di salgemma che ruotano su se stesse con differenti velocità. La lenta rotazione di ognuna di loro e la pulsazione luminosa dei monitor crea un dispositivo che permette un effetto ipnotico, dove è possibile valutare la forma e la materia in modi forse inediti.
Nell’ultima sala, che è quella più interna, ho pensato a una scultura fatta con duecento metri di tondino di ferro piegato che va a occupare quasi l’intero spazio. L’illuminazione di questa sala è molto debole e crea una percezione intensa di indeterminatezza dello spazio e della forma che esso contiene. Qui siamo in una condizione della materia ancora informe e magmatica, in via di definizione. In realtà la mostra andrebbe vista al contrario, ovvero partendo da questa sala, per poi passare alla video installazione e infine alla sala d’ingresso.
Come si riconnette questa mostra al tuo lavoro precedente?
Se ripenso alle mie ultime tre personali vedo distintamente tre fasi tra loro unite. La prima è quella legata a una dimensione di distruzione, dove il mio sforzo vergeva nel liberarmi dalle categorie culturali che percepivo come inadatte a esprimere il mio universo linguistico. In quel periodo sintetizzavo il mio metodo di lavoro con il paradosso: costruisco demolendo. La mostra che sintetizza questa fase è Lamed, presentata a Surplace artspace di Varese e curata da Andrea Lacarpia.
La seconda fase è legata a un sentimento di sospensione o apparente assenza di vita: in botanica si usa il termine quiescenza. Qui incominciavo lentamente a distinguere delle forme nel buio, come dicevo prima. Il mio pensiero si rendeva gradualmente più idoneo al rapporto diretto con l’enigmaticità del reale. La mostra che sintetizza questa fase è Aufblühen, presentata a Gelateria Sogni di Ghiaccio di Bologna e curata da Rossella Moratto. Infine l’ultima fase, che è quella attuale, dove, pur ricapitolando i precedenti stati, l’elemento vitale ha sicuramente preso il sopravvento, determinando un pensiero che nel suo formularsi è già scultura.
Raccontami delle fasi di elaborazione in studio. Ieri mi hai spiegato che il processo di realizzazione è stato in qualche modo rischioso. C’è quindi un corpo a corpo con la scultura, che muta nel tempo e che richiede una concentrazione nelle sue fasi di produzione. Spiegaci un po’…
Sicuramente il lavoro con il cloruro di calcio è stato complesso, perché non esiste una letteratura in merito a questo materiale in riferimento alla scultura, quindi è stato difficile capire il suo comportamento e questo ha richiesto diversi mesi di sperimentazione. Il discorso che facevo prima, che potrebbe sembrare molto teorico, ovvero interrogare l’enigma che è la realtà senza filtri culturali, diventa qualcosa di molto pratico e per certi versi necessario. Ho lavorato per diversi mesi con un materiale che velocemente lasciava i suoi segni sia sul mio corpo, in forma di ustioni e ferite, che nello spazio dello studio. L’aria si era talmente saturata di cloruro di calcio da penetrare negli strumenti elettrici provocando a un certo punto un cortocircuito, con relativa scarica elettrica. Quando lavori con delle forze reali è normale che queste si manifestino. Al di là dell’evidente pericolosità di tutto ciò, ho capito come si fosse assottigliata la membrana tra la realtà e il pensiero, si era creata una tale sintonia tra queste forze che, come dicevo prima, il pensiero nel suo formularsi era già una forma di scultura.
La scultura, intesa come dispositivo attivo, si è sviluppata soprattutto dalle indagini dell’Arte Povera in avanti. Come ti rapporti alla storia dell’arte contemporanea e in che termini ti relazioni con le esperienze della scultura della stretta attualità?
Penso che attualmente l’arte stia vivendo un momento di grande vitalità, ci sono tantissimi artisti che lavorano e questo credo sia qualcosa di positivo a prescindere dal condividere o meno le ricerche o i moventi individuali.
Quello che noto come tendenza nella stretta attualità è un’eccessiva fiducia nel “discorso culturale”, in alcuni casi questo lo si fa coincidere con l’atto creativo. Non lo trovo corretto. Mi sembra davvero un equivoco che depotenzia l’atto creativo, che dovrebbe coraggiosamente collocarsi in una dimensione assoluta e non in uno spazio relativo come quello della cultura, dove tutto è possibile ma niente diventa effettivo. È fatale che l’atto creativo diventi a un certo punto cultura, ma non credo che la cultura possa trasformarsi in atto creativo. Comunque ci sono molti artisti a cui guardo con interesse e ammirazione, sono quelli che riescono, in un certo senso, a estroflettersi dall’orizzontalità del tempo e dalle contingenze passeggere per guardare le cose per quello che sono, nella loro complessità, con uno sguardo costruttivo, anzi creativo.
La vitalità che tu percepisci nella stretta attualità – che invece mi pare anche un sinonimo di iperproduzione, alle volte – non dovrebbe però prescindere dalla considerazione di alcuni legami specifici legati agli sviluppi di alcuni linguaggi, scultura compresa, nella storia dell’arte più o meno recente.
Non credo sia corretto né possibile prescindere dal lavoro di alcuni artisti che hanno avuto la forza di mostrare nuove possibilità nei rispettivi linguaggi. La grande differenza è come si veicola questo rapporto, se questo diventa un impulso nel processo creativo non può che essere un rapporto positivo, se diversamente rimane un perpetuare quanto di già sperimentato lo è di meno. Nel lavorare a questa mostra io ad esempio ho sentito particolarmente vicino il lavoro di Lucio Fontana.
Come si svilupperà nel futuro la ricerca declinata in questa mostra personale?
Non riesco a prevedere a priori uno sviluppo, proprio per la peculiarità del mio metodo, che vive in un costante ridefinirsi e non assume delle posizioni fisse. Quello che posso dirti è che il mio impegno andrà verso il perfezionamento di un linguaggio, che è quello della scultura, nella speranza di renderlo quanto più reale e per certi versi utile possibile, oltre la dimensione prettamente estetica.
Quindi quali sono i progetti per il prossimo futuro?
Sono alle prese con i disegni preparatori di un’opera imponente per un collezionista trentino. Qualcosa in bilico tra la scultura e l’architettura, un luogo dove spogliarsi di ogni volgarità, per dirla come Balthus.
‒ Lorenzo Madaro
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