Architetti d’Italia. Aldo Loris Rossi, l’utopista
Stavolta Luigi Prestinenza Puglisi analizza la carriera di Aldo Loris Rossi, scomparso pochi giorni fa. Mettendo in luce il suo, incompreso, desiderio di cambiamento.
Il giorno 28 giugno 2018 è scomparso il più geniale degli architetti metropolitani italiani: Aldo Loris Rossi. Un progettista di utopie che a volte ha forzato la mano, arrivando negli Anni Sessanta a proporre edifici monstre altri 800 metri, lunghi un chilometro, in grado di ospitare tra i 250mila e i 500mila abitanti: la popolazione di una città di medie dimensioni. E, forse anche per questo motivo, un protagonista dimenticato. Oggi nessuno si sognerebbe più di prefigurare utopie. Perché dubitiamo che possa esistere una idea di futuro e perché pensiamo che l’utopia non debba travalicare la nostra dimensione individuale. Debba insomma limitarsi al progetto della nostra villetta o al disegno di un loft immerso nel verde artificiosamente portato all’ultimo piano.
Aldo Loris Rossi fa parte, invece, di un’altra generazione. Nato nel 1933, è arrivato trentenne negli Anni Sessanta, quando si prefigurava all’orizzonte la speranza di un cambiamento radicale. Che poteva avvenire solo mettendo in crisi il modo di darsi della città, le forme dell’abitare, la nostra dimensione sociale. Proveniente da una famiglia operaia, Loris Rossi, non ha un particolare attaccamento allo status quo. E, come altri protagonisti della sua generazione, vive con preoccupazione il boom economico che sta portando l’Italia dai disastri della guerra ai problemi di uno sviluppo caotico e disorganizzato, a tratti abietto. Che si confronta con la legge dei grandi numeri ma non riesce a trasformare i cospicui investimenti, in primis infrastrutturali, in qualità urbana. Da qui il desiderio di prefigurare, attraverso lo strumento del progetto, il cambiamento. Un sogno questo che cattura gli spiriti creativamente più dotati della sua generazione e di quella immediatamente precedente. Penso a Leonardo Ricci, a Luigi Pellegrin, a Maurizio Sacripanti, a Manfredi Nicoletti. I quali propongono negli stessi anni progetti non meno giganteschi e utopici, e per noi non meno incomprensibili.
Importante per Loris Rossi è l’influsso di Paolo Soleri, impegnato negli Anni Cinquanta a Salerno a realizzare la fabbrica Solimene. Soleri gli mostra che l’architetto deve avere la capacità demiurgica di immaginare il mondo del futuro, di dedicare la propria esistenza a costruire una società che eviti quell’uomo a una dimensione che, invece, i modelli capitalistici stanno producendo.
“Da Wright Aldo Loris Rossi impara la composizione per orizzontali e verticali, per curve paesistiche e chiodi prospettici“.
Ma l’influenza più rilevante è wrightiana. I nuovi sistemi urbani dovranno fare i conti con la dimensione territoriale prefigurata dalle ultime opere dell’americano: oltre Brodoacre city e vicina ai grandi sogni a scala del paesaggio accennati dalla spirale del Guggenheim e messi in atto con il progetto per Baghdad.
Da Wright Aldo Loris Rossi impara la composizione per orizzontali e verticali, per curve paesistiche e chiodi prospettici. Le curve intere, parziali o deformate sono, nonostante gli anni di intensa sperimentazione, figure geometriche utilizzate in Italia con una certa circospezione (con l’eccezione di Paolo Portoghesi, che in coppia con Vittorio Gigliotti le fa diventare la matrice della composizione spaziale, orientandole verso esiti formali neobarocchi). Servono a Loris Rossi per aprire allo spazio circostante, per avvolgere, per realizzare ambienti cavi, per alternare concavità e convessità generando insiemi dinamici e pulsanti di energia: insomma per abolire una visone deprimente dello spazio cartesiano che aveva caratterizzato la tradizione vincente del movimento moderno a scapito di un’altra più promettente, neo-organica ed espressionista, ma minoritaria e marginale. Gli spazi verticali sono torri, osservatori, guglie che si contrappongono alle forze centripete e centrifughe agenti nei piani orizzontali per svettare verso il cielo e da lì consentire l’integrazione con il paesaggio attraverso la visione libera del panorama circostante.
Il risultato è che le architetture di Loris Rossi sono complesse e intricate sino a sembrare dei labirinti e, allo stesso tempo, offrono visioni inaspettate che permettono la percezione chiara e distinta dello spazio. Pochi autori nella storia dell’architettura italiana, e forse europea, riescono a padroneggiare questo dualismo, metafora da un lato di una società complessa che non deve ridurre lo spazio alla banalità di un paio di assi ortogonali, e dall’altro di una società trasparente che ha sempre punti di vista attraverso i quali può essere osservata nella sua interezza o per larghe parti.
Autore di straordinaria forza e raffinatezza, Loris Rossi si trova a suo agio là dove confluiscono e si integrano gli opposti. Se la sua città ideale è la metropoli, perché solo la densità genera cultura, incontri e interrelazioni, il suo spazio di riferimento è geografico.
Il corretto rapporto con la natura garantisce l’intelligente uso di forme energetiche alternative, generando uno sviluppo economico sostenibile. Come altri protagonisti degli Anni Sessanta e Settanta, Loris Rossi è un precursore di una moderna visione del rapporto uomo-natura. Che non ha paura a fare i conti con il cemento perché l’uomo, sociale e socievole, vive in spazi artificiali integrati nel paesaggio.
“Un personaggio oggi caduto nel dimenticatoio ma la cui opera ha ancora sufficienti energie per essere ripresa e studiata come meriterebbe“.
Inflessibile nella sua idea di pensare a un futuro diverso, Aldo Loris Rossi, come molti suoi coetanei, capisce che all’architetto non è concesso il disimpegno. Che arte e politica coesistono perché l’una sostiene l’altra. Ne è seguito un impegno incessante nelle file del Partito Radicale e una intensa attività di scrittore, teorico, conferenziere. Che ha prodotto una doppia sconfitta. La prima per il ruolo sempre più marginale assunto dai radicali nelle vicende politiche nazionali, che hanno relegato il partito di Pannella e della Bonino a uno spazio limitato e solo nell’ambito della difesa dei diritti sociali. La seconda perché con il passare degli anni la separazione tra architettura e politica si è accresciuta sino a essere drammatica. Con l’architetto diventato sempre di più un decoratore e non un costruttore di forme e di spazi. Un soggetto al quale è sottratta ogni decisione sui modelli abitativi trasferiti ad altri soggetti o, come sempre più spesso accade, ripresi stancamente da repertori tipologici e morfologici oramai consolidati.
Motivo per il quale i grandi progetti di Aldo Loris Rossi sembrano sempre più lontani, remoti, irrealizzabili. Puri esercizi stilistici dei quali si è persa ogni chiave interpretativa.
Come per esempio la casa del Portuale che oggi appare come il perfetto sfondo dei film sulla camorra. Di essa si percepisce solo il gigantismo, l’uso brutalista del cemento armato, la inusuale costruzione per volumi. Non si riesce più a osservarla come un esercizio di libertà compositiva e spaziale. Come un polo di una città nuova che costruisce in altezza per lasciare ampi spazi alla natura, che guarda la metropoli da ogni angolazione per legarsi intimamente a essa, come un luogo in cui lavorare e vivere senza essere intrappolati tra quattro pareti ortogonali.
I PROGETTI
La stessa sensazione la abbiamo nei molti edifici che Loris Rossi realizza a Bisaccia. Rotonde e decise fortezze in calcestruzzo che raccontano di una città diversa che non può essere bellina, misuratina, legnosella come oggi vorrebbero le mode dominanti.
Forse domani, quando si capirà che la buona architettura non è accettazione dell’esistente contesto, spacciato come genius loci, si apprezzerà la grandezza di questo architetto che seppe immaginare Wright all’interno delle metropoli campane, che ha imparato la lezione dei futuristi senza scimmiottarli, che ha saputo dialogare con le correnti espressionistiche e organiche europee pur rimanendo italiano. Un personaggio oggi caduto nel dimenticatoio ma la cui opera ha ancora sufficienti energie per essere ripresa e studiata come meriterebbe.
A me Aldo mancherà anche per un altro motivo: quando ci vedevamo parlavamo di date e di numeri. Aveva una memoria straordinaria e sapeva come pochi relazionare fatti ed eventi accaduti. Ricordava le date di nascita di tutti gli architetti e aveva perfettamente capito la numerologia celata in un libro che avevo scritto diverso tempo fa. Era un lettore attento e acuto e un interlocutore gentile e generoso. Virtù rara. Riposi in pace.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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