Spirituale e filosofica la sua visione del design: ogni oggetto o spazio da lui progettato è una complessa moltitudine di significanti e significati, che rimandano a linguaggi diversi, dalla letteratura al cinema fino alla cultura orientale, la sua vera passione. Andrea Anastasio (Roma, 1961) è uno spirito libero, un vero outsider del variegato mondo del design. Romano di nascita, si è formato viaggiando, in Oriente in particolare, per arrivare alla definizione di una ricerca artistica aperta che non conosce limiti, dalle arti applicate fino all’arte contemporanea e all’architettura. I progetti creati per aziende italiane e internazionali sono incentrati sulla manipolazione di oggetti, beni di consumo e materiali domestici. Lavora sul confine tra arte concettuale e industrial design per gallerie, studi di architettura, case editrici e musei. Lo abbiamo incontrato per parlare dell’installazione site specific Risvolto nell’ambito della rassegna curata da Domitilla Dardi Una stanza tutta per sé per Cantiere Galli a Roma, showroom di materiali edili ma anche spazio poliedrico e di ricerca. L’intervento di Anastasio è uno spazio emotivo dove il “risvolto” diventa la sintesi imperfetta tra funzione ed estetica.
Come nasce il tuo approccio concettuale al design?
Ho compiuto studi di storia dell’arte e mi sono laureato in filosofia. Il design è arrivato dopo l’incontro con Ettore Sottsass e Bruno Munari. Nell’affrontare le problematiche connesse alla progettazione, mi sono avvicinato a una modalità operativa che ora mi appartiene in modo più profondo.
Munari e Sottsass possono essere considerati i tuoi maestri?
Molti sono i miei maestri, ma decisamente sia Munari che Sottsass hanno giocato un ruolo fondamentale nella mia formazione. Fu proprio Ettore a introdurmi nella realtà progettuale di Milano in modo diretto. All’inizio del mio percorso il suo lavoro è stato profondamente propedeutico e soprattutto mi ha insegnato come guardare il mondo e le cose. Nei pochi e veloci incontri con Munari, grazie ai video e le tante pubblicazioni che mi ha donato, è stato per me un riferimento profondo. Una voce poetica e un luogo dove tornare a meditare e assottigliare l’ascolto.
All’apice del successo un lungo viaggio in India. Una fuga? Un periodo di formazione?
All’università mi ero specializzato in studi di orientalistica e vivevo il successo ottenuto col design in modo conflittuale. Se il design mi dava la possibilità di dialogare con il mondo in modo creativo e conoscere realtà nuove e dinamiche, allo stesso tempo mi allontanava dagli ambienti accademici e soprattutto mi proiettava all’interno di un dibattito culturale sul progetto che, in quel momento particolare, stava cambiando radicalmente. Fu per me necessario allontanarmi e riflettere, potermi ascoltare e comprendere in quale modo potessi contribuire al progetto. È stato fondamentale per me poter vivere in un Paese non europeo, dove la cultura artigianale pre-industriale era ancora molto presente e visibile, da cui osservare il mio Paese con la distanza sufficiente. In quegli anni internet e i social network non esistevano, vivere in India è stata una immersione totale in un “altro mondo”.
Non ami definirti, ci sono dei confini nella tua ricerca artistica?
Nel tempo ho imparato a non farmi più condizionare da definizioni. Esistono delle modalità operative e dei contesti, ed esistono infinite declinazioni del “fare arte” o del “fare design”. Preferisco la parola autore e quella di progetto.
Cosa pensi della design art, pensi di farne parte?
Confesso che non mi piace il termine design art e credo anche che sia molto importante, per un autore, conoscere bene gli ambiti in cui opera. I linguaggi e le strutture sono ormai ibridi e credo che sia possibile operare in modo diverso, ricercando nuovi potenziali linguistici del design.
Come nasce il progetto Risvolto?
Risvolto nasce dal desiderio di portare dentro il progetto un materiale che sarebbe alla fine del suo percorso, immettendolo nuovamente dentro il ciclo produttivo. Visitando la sede di Cantiere Galli, ho avuto modo di esplorare il magazzino, da qui l’idea di rendere visibile il retro della piastrella.
Ci stai dicendo che il retro o la parte non visibile è quella più importante?
Diciamo che ho cercato di portare l’attenzione sulla materia e sui processi produttivi. Il retro della piastrella è contrassegnato da pattern che hanno la specifica funzione di farla aggrappare alla parete e di distinguere una produzione dall’altra. In altre parole, funzione e ornamento vengono a coincidere.
Cosa intendi quando dici che “ogni materiale ha una sua integrità”?
Intendo dire che ogni materia si contraddistingue per le sue caratteristiche performative, estetiche, tecniche e che una corretta progettazione non può prescindere dalla conoscenza di queste caratteristiche.
C’è un’ossessiva ripetitività di geometrie apparentemente casuali. Quanto ritorna dei tuoi studi di cultura orientale in questa esaltazione del segno?
È inevitabile che nel mio lavoro emergano aspetti iconici o strutturali tipici della cultura orientale. Ho vissuto in Asia metà della mia vita e ho studiato a lungo l’iconografia islamica, hindu ed estremo orientale. Quindi, anche se non c’è una specifica intenzione, spesso riemerge un gusto o un modo di organizzare lo spazio, un ritmo formale molto informato da quella familiarità.
Qual è il significato dei vasi, elemento che ritorna in tanti tuoi progetti?
Si tratta di un oggetto molto particolare. Dall’inizio del mio percorso ho avvertito in modo molto spontaneo il bisogno di progettare vasi. In trent’anni di progettazione ho investigato le loro possibilità comunicative e credo che per me siano diventati il testo ideale al quale consegnare le riflessioni sulla cultura abitativa e sul senso delle cose in un mondo in continua trasformazione.
Come continua la tua collaborazione con Cantiere Galli?
Stiamo pensando di affinare le tecniche usate per invetriare il retro delle piastrelle presentate nella stanza e di progettarne una serie. Siamo in sintonia nell’idea di ridare vita a un materiale che giace fermo in magazzino, investendolo di nuovi processi progettuali.
‒ Alessio de’ Navasques
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