Spazi d’artista crescono. Intervista ad Antonio Rovaldi
Parola al fondatore dello spazio CLER a Milano. Un artist-run space costruito sulle ceneri di una officina e poi di una impresa edile.
Il fenomeno dell’artist-run space, molto diffuso in area anglosassone, non è nuovo. MARS, ad esempio, festeggia a dicembre dieci anni di attività. Negli ultimi anni però a Milano gli spazi gestiti da artisti per artisti sono proliferati. Tra i più recenti segnaliamo CLER, serranda in milanese: un garage ad angolo, collocato in una tipica corte meneghina, che è stato officina meccanica, poi deposito di un’impresa edile. A trasformarlo (anche) in spazio per mostre temporanee ci ha pensato l’artista emiliano Antonio Rovaldi (Parma, 1975) che dal 2005 trascorre lunghi periodi a New York. La Grande Mela e l’aggressivo business del circuito dell’arte newyorkese però non l’hanno cambiato, anzi. Sorridente, accogliente, dai toni pacati, Antonio è un perfezionista sognatore che è riuscito a trasmettere al nuovo spazio il suo spirito e a trasformarlo in un luogo curato nei minimi dettagli, con un allestimento maniacalmente impeccabile. Siamo andati all’opening della terza mostra. L’atmosfera, e non ne avevamo dubbi, era genuinamente conviviale. Ci siamo fatti raccontare la storia dello spazio, i suoi obiettivi e anticipare il programma della prossima stagione.
L’INTERVISTA
Cominciamo dall’inizio. Hai trovato uno spazio in via Padova, a pochi passi da Loreto e non distante da NoLo, collocato in una tradizionale corte milanese. Era un deposito di un’impresa edile. L’hanno messo all’asta, lo hai comprato… poi?
Quasi due anni fa ho visto un trafiletto su un giornale con l’annuncio di un ex garage in vendita tramite un’asta fallimentare, così mi sono presentato in tribunale convinto ci fosse una gran coda di partecipanti, invece ero solo. Meglio così perché lo abbiamo acquistato a prezzo della base d’asta. Prima di diventare il deposito di un’impresa edile, questo spazio era un’officina meccanica e su una parete era rimasto appeso un poster di una Ford bianca degli Anni Settanta. Dentro al garage c’era un grosso cumulo di macerie e la porta era un telone blu da cantiere.
Si chiama CLER che in milanese significa…
CLER sta per serranda: tira su la clèr, va a lavurà! Così ho ripreso la vita da studio che avevo abbandonato per anni e di cui sentivo un po’ la mancanza. Con lo studio di architettura DWA di Milano e mio fratello lo abbiamo ristrutturato. Abbiamo fatto un pavimento di cemento, rimesso la porta, gli infissi, tre grandi bambù, una panchina e un portabiciclette. La grafica del nome l’ha disegnata Alessandro Costariol, grafico e amico con cui, insieme a Francesca Biagiotti e al fotografo Andrea Camuffo, appena sbarcato a Milano, condivido lo studio da un anno. Ci siamo ispirati alle insegne delle Petrol Station americane, soprattutto quelle del nord. Pare che questo cortile in passato fosse una stazione di sosta per le carrozze in viaggio. La traiettoria di Via Padova del resto suggerisce un’uscita agile dalla città e da Piazzale Loreto, quando il vento spazza via lo smog, si possono vedere le montagne. CLER ha un bel suono, mi ricorda il nome di una donna e sa di detersivo buono.
Ospiti artisti della tua generazione ai quali chiedi di esporre opere inedite, anche del passato.
Era tanto che volevo dedicare una parte del mio spazio di lavoro ad altri artisti e questo garage ad angolo è letteralmente piombato dal cielo. Inoltre avevo voglia di tornare a radicarmi un po’ di più a Milano, città dalla quale negli ultimi anni mi sono allontanato, sia mentalmente che fisicamente. A Milano, io, fatico un po’. Pensavo di dedicare una stanza della mia casa a piccola residenza per artisti ma poi, per permettermi lunghi periodi in America, ho dovuto metterla in affitto. Ora questo spazio che si affaccia su Via Padova lo sento come un luogo perfetto per lavorare e ospitare artisti con i quali mi sono confrontato in passato ma con cui non ho avuto modo di mettere a fuoco un’immagine condivisa, soprattutto con quelli della mia generazione. È uno spazio con delle belle proporzioni, né grande né piccolo, e l’arredo è essenziale e si può facilmente spostare perché ho messo rotelle ovunque. A me basta avere un tavolo e una libreria dove mettere i libri e poi, non essendo una galleria, mi piace l’idea che le opere degli artisti invitati possano dialogare con la quotidianità dello studio.
Da anni trascorri lunghi periodi a New York, dove sono frequenti spazi gestiti da artisti per artisti.
Sono appena tornato da New York, dove dal 2005 trascorro parte dell’anno. In realtà negli ultimi due anni ero fisso là, vivevo ad Harlem, ma l’ultimo periodo l’ho trascorso a Ridgewood, esattamente sulla linea di confine tra Queens e Brooklyn. A New York gli artisti aprono spesso le porte degli studi per mostrare i loro lavori. Non tutti lavorano con delle gallerie, soprattutto gallerie newyorkesi, così il modo più immediato resta il proprio spazio di lavoro, fosse anche un cubotto di due metri senza finestre. New York è grandissima ma manca sempre lo spazio e, quando c’è, non te lo puoi permettere. Condividere uno spazio di lavoro mi sembra una cosa necessaria oggi che le gallerie, soprattutto quelle di New York, somigliano sempre più a grandi e fredde sale d’attesa. Una cosa ridicola e anche un po’ decadente. Comunque spesso le serrande delle gallerie di NYC sono costrette a chiudere, soprattutto quelle di Chelsea, perché gli affitti hanno raggiunto cifre mostruose e se la galleria non vende l’arte che espone chiude dall’oggi al domani. Sai che ansia per tutti?!
Hai appena inaugurato la mostra di Luigi Fiano con una serie fotografica dedicata agli argini del fiume Po.
Ho conosciuto Luigi di recente proprio attraverso le sue fotografie. È un progetto bellissimo dedicato agli argini del fiume Po: A River. Un viaggio lento lungo le sponde del fiume, attraverso luoghi che ancora oggi restano in disparte. Il fiume Po, da dentro, è un mondo da scoprire. Da tempo io ed Ettore Favini, con cui da anni condivido progetti legati al paesaggio e al suo attraversamento, attendevamo l’occasione per fare una piccola mostra dedicata al fiume e ai suoi tempi lenti. Così abbiamo invitato Luigi e le sue fotografie a confrontarsi con noi e con lo spazio dello studio.
In mostra c’è anche un film che hai realizzato proprio insieme a Ettore Favini. Un lavoro lungo, interrotto, poi ripreso, di cui stai ultimando il montaggio…
To Say Nothing Of The Dog è un film che Ettore e io abbiamo cominciato nel 2014. Era il progetto selezionato per la 48esima edizione del Premio Suzzara e prevedeva un viaggio fluviale su una piccola barca di ferro, da Cremona fino alla foce del fiume Po. Insieme al fotografo Emanuele Colombo e alla scrittrice Francesca Berardi, abbiamo navigato il fiume per cinque giorni, dormendo nei circoli dei canottieri e intervistando personaggi assurdi incontrati lungo le sponde del fiume, tipo un anziano uomo dalle mani giganti che dice di aver raddoppiato l’età di Gesù e che si fa chiamare il Re del Po. È stato un viaggio meraviglioso con una fine decisamente imprevista, ma non voglio svelare troppo del film, anche perché stiamo ancora ultimando il montaggio con Federica Ravera, dopo quattro anni dall’inizio delle riprese. Elogio assoluto della lentezza…
Negli Stati Uniti stai lavorando da un po’ a un progetto complesso. Di che cosa si tratta?
Da due anni cammino intorno ai margini dei cinque boroughs di New York City per raccontare, attraverso la scrittura e la fotografia, i margini estremi della città. Si tratta di una lunga camminata fotografica per esplorare gli ultimi metri di terra intorno alla città, esattamente dove finiscono le strade e comincia l’oceano o la laguna. Aree di verde incolto, spesso disabitate, dove è ancora possibile ascoltare il silenzio della città. Sto lavorando a una nuova pubblicazione: End. The Silence Of New York City Frontiers. Ho coinvolto scrittori italiani e americani e ho chiesto a Francesca Benedetto, paesaggista di base a Boston, di disegnare le mappe della città e di rileggere, graficamente, le mie soste fotografiche. È un progetto complesso che cerca di raccontare la città più iconica al mondo da un punto di vista inedito: quella porzione di territorio dove, nella quotidianità, il passante “comune” non si spinge oltre. Questi luoghi restano gli unici nella città in cui è ancora possibile immaginare una rinascita e una rivincita della natura sul cemento che avanza. Insieme a un vasto archivio di fotografie sto lavorando con Massimo Carozzi (ZimmerFrei) a una mappatura sonora della città.
Ci siamo conosciuti tanti anni fa. Ricordo che ti avevo selezionato per il Premio Furla. Nel frattempo hai fatto molto, ma in Italia è sempre più difficile avere la giusta riconoscenza per un artista mid-career. A Milano, per fortuna, ci sono diversi spazi gestiti da artisti per artisti.
Sei passato a trovarmi nel mio primo studio anni fa, un piccolo basement su Via Tadino, poi per anni non ci siamo più incrociati e io ho continuato a mandarti email all’indirizzo sbagliato! Nel frattempo mi sono diviso tra Milano e New York e credo che continuerò a rimbalzare tra una città e l’altra. Quando sono a Milano mi manca molto New York e quando sono là vorrei essere in bicicletta fra le risaie, è sempre così.
Io tendo all’irrequietezza e la grafica di CLER mi ricorda ogni giorno che il mio studio in realtà è una stazione di benzina e quindi non so per quanto mi fermerò!
Milano però, a differenza di NYC che è immensa, ha delle distanze perfette e resta una città generosa nei rapporti umani. Gli artisti ‒ se lontani dalle dinamiche “da galleria” ‒ hanno voglia di condividere la loro ricerca, qui come altrove. Mi piace pensare che una piccola mostra possa essere il tramite perfetto per un incontro che genera un dialogo.
Stai lavorando al programma per l’autunno. Mi hai anticipato che la prossima artista sarà Paola De Pietri.
Non abbiamo un programma e un calendario preciso perché non siamo una galleria e perché ciascuno di noi, in studio, ha ritmi e frequenza diversi. Alziamo la serranda quando siamo più o meno tutti allineati. Abbiamo inaugurato lo studio con una mostra fotografica dal titolo La Bella Estate con fotografie di Stefano Graziani, Alessandra Spranzi e Allegra Martin, quella successiva, Empty Walls Drawings (Simon), di Farid Rahimi. Con Farid, da anni, condividiamo l’amore per un romanzo di Robert Walser: I fratelli Tanner. Comunque sì, un po’ di programma siamo costretti a farlo e Alessandro disegna anche delle brochure in bianco e nero dedicate all’artista che ospitiamo. Non ci sono grandi economie, ma con poco cerchiamo di fare le cose bene. Ci sono tanti artisti che vorrei invitare, al di là dei mei interessi specifici nell’ambito del linguaggio fotografico e video in relazione al paesaggio, ma lascio che sia una certa casualità a fare accadere un incontro.
E dunque chi ospiterai?
Per fine settembre ho invitato Paola De Pietri con dei lavori che non ha mai esposto prima, a fine ottobre invece ho chiesto a Italo Zuffi un progetto che possa mettere in relazione il linguaggio fotografico con la scultura e la performance. Italo è rimasto incuriosito dai garage che confinano con lo studio e credo voglia aprire la clèr anche a loro. Ha fatto cenno a una macchina dentro un garage con una persona che parla, il motore acceso e una luce, ma dobbiamo tornare sull’argomento a breve, perché non ho ben capito! Amo da sempre la ricerca di Italo, da quando ci siamo incontrati durante una residenza in Toscana, quando si poteva davvero dire che eravamo tutti dei giovani artisti! Dopo Natale vorrei dedicare qualche giorno agli ZimmerFrei e ai loro documentari della serie Temporary Cities e magari chiedere loro di pensare un progetto video dedicato a Via Padova e al quartiere.
Poi vorrei invitarne tanti altri, non solo italiani: Anton Ginzburg da New York, Michael Hoepfner da Vienna, Charlotte Dumas dalla Danimarca, Javier Arce dalla Spagna, Pierre Decamps dalla Francia, Maurice van Es dall’Olanda…
Mi piace pensare che un artista possa sostare da CLER come se fosse una stazione di benzina, fare il pieno e ripartire… magari in bicicletta!
‒ Daniele Perra
Milano
CLER
Via Padova 27
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