Un giapponese in Italia. Intervista-ricordo a Hidetoshi Nagasawa
A pochi mesi di distanza dalla morte di Hidetoshi Nagasawa pubblichiamo l’ultima, ampia intervista rilasciata dall’artista in Italia. Quando la permanenza dello scultore, architetto e performer giapponese nel Belpaese aveva raggiunto il traguardo del mezzo secolo.
Lei è in Italia da cinquant’anni; qual è l’esperienza che ricorda con maggior piacere?
Ah, adesso mi sono accorto che sono cinquant’anni! È un percorso lungo cinquant’anni! Sembra che sia iniziato ieri, ma ci sono stati tanti lavori, studi, persone. Calcolando, in Giappone ci sono stato solo vent’anni, in Cina solo appena nato. Per me la cosa più bella era l’incontro con gli amici italiani. Questa per me è la grande storia. Però sai, in questi ultimi quindici anni mi sento triste perché piano piano stanno mancando. Un giorno andrò via anche io. L’Italia comunque mi è piaciuta tanto, mi piace ancora molto e sono convinto che sia un grande Paese proprio perché ci sono gli italiani.
Ricorda qualche aneddoto in particolare legato alla vostra compagnia degli Anni Settanta?
La mia compagnia era composta da Fabro, Nigro, Trotta, Tobas il francese, Tonello, Ongaro. Eravamo tutti i giorni insieme e bevevamo vino cattivo e ogni giorno è stato bello. A Sesto San Giovanni, in uno studio di trenta artisti milanesi, ho trascorso diciannove anni. Eravamo sempre lì e scambiavo disegni e piccole opere per pagare l’affitto. Per i giovani artisti senza soldi è stato bellissimo.
Come ha maturato la decisione di partire e vedere “l’altra parte del mondo”?
Sono partito nel 1965 quando i miei amici andavano negli Stati Uniti. A me interessava vedere i Paesi intorno al Giappone. Mi sono detto “partirò a vedere questi Paesi.” Il mezzo, beh, io volevo partire a piedi, ma camminando potevo vedere pochissimo. La macchina è troppo veloce, mentre in aereo non si vede nulla. Allora mi sono deciso per la bicicletta. Non è che ami la bici o ne avessi una passione, è stata solo una questione di velocità, molto umana. Lo scopo, la meta, non li avevo pensati, volevo solo viaggiare per un anno. I patti erano questi con mia moglie perché eravamo appena sposati. Dopo l’Asia non potevo fermarmi e, al confine con la Grecia, ho rimandato il rientro di due mesi. Poi, appena mi sono reso conto che c’era tutta l’Italia, ho rimandato ancora. A Milano mi sono trovato così bene che, a furia di rimandare, ho detto direttamente a mia moglie di venire qui. Me ne sono innamorato, ho visto tante cose belle, di arte contemporanea, medioevale, rinascimentale. Poi ho capito che stavo vedendo solo una parte del tesoro italiano. “Non posso andare avanti senza vedere nel profondo cos’è l’Italia”. E sono rimasto qui. Pensavo di starci due anni, ma poi ne sono trascorsi cinquanta!
Nelle sue opere quanta importanza ha il lato orientale e quanto quello occidentale?
In realtà spero non si veda il lato occidentale o il lato orientale. Voglio che un’opera sia mia. Sono giapponese, vissuto cinquant’anni in Italia, e la cultura italiana mi ha influenzato molto perché la studio, senza smettere mai di studiare quella giapponese. Dentro di me le due culture sono fuse. Si deve vedere solo la presenza equilibrata di entrambe. Quando vidi gli affreschi del Beato Angelico al Museo di San Marco a Firenze, mi sono chiesto: “Qui in Italia c’è stato lui, ma in Giappone chi c’è stato?”, allora cerco in Giappone e trovo un pittore nato nello stesso periodo, 1420, anche lui monaco, pittore e ha inventato la pittura giapponese. Quando scopro queste cose sono molto contento perché i punti in comune esistono veramente! Questa ricerca è infinita ma la trovo bellissima.
Qual è la cosa o il concetto che ha ammirato maggiormente della cultura occidentale?
Per capire una cultura ce ne vuole sempre un’altra. La cultura italiana non può nascere anche in un altro luogo. Non si capisce bene il perché. Sono cose molto diverse dalla cultura giapponese. Io guardo un minimo di due culture e le confronto. Considero quali sono le loro parti più importanti, ne cerco i punti in comune. Con quale cultura c’è meno somiglianza. Se non ci sono queste cose è difficile capire.
Se non ci fosse stato il furto della sua bici, quale sarebbe stata la tappa successiva?
Milano era l’ultima città dell’Italia, sarei dovuto andare in Svizzera, trenta chilometri oltre e sarei arrivato sicuramente in Germania. Ma non avevo deciso di finire lì. Ho sempre detto “per fortuna mi hanno rubato la bicicletta, altrimenti sarei stato obbligato ad andare avanti”. Avrei voluto ringraziare il ladro perché ha avuto ragione sul fatto che dovevo rimanere qui. Quel periodo è coinciso con il mio innamoramento verso l’Italia, quindi tutto è andato come doveva andare.
Che tipo di interazione c’è stata con il Gruppo Gutai?
Ho conosciuto il Gruppo Gutai a quindici anni, ma ne sentivo solo parlare. Quando sono diventato grande li ho conosciuti personalmente. La loro vita la facevano lontano da Tokyo. Noi diciamo Kansai [una regione giapponese sul versante centro-occidentale dell’isola. È composta da città come Kobe, Kyoto, Osaka, Hyogo, Mia, Shiga, Nara, Wakayama, N.d.R.].
Ho letto la loro rivista d’arte, sono andato a vedere le mostre. Mi hanno influenzato molto perché non esiste niente del genere in Giappone. È stato molto bello. Li ho conosciuti meglio dopo, ma quello che mi interessava negli Anni Cinquanta erano le attività, che mi hanno indicato una direzione.
Su cosa si fonda la sua ricerca artistica e quali pensa possano essere i suoi sviluppi successivi?
La mia ricerca si fonda sulle idee, ma non so fino a quale punto possa sviluppare il mio viaggio mentale e la mia battaglia con le mie idee. Gli artisti ne sono alla ricerca e non è facile averne. Ad avere belle idee sono sempre stati pochi, quasi nessuno. Molti usano droghe, alcol, metodi piuttosto stupidi di stancarsi sperando che arrivi una strana immagine credendo sia quella l’idea. Ma la ricerca è molto più profonda e complessa. Se sei malato vengono pensieri, sogni strani, non idee. Spesso mi spingo molto lontano, perché è un viaggio senza strada e se riesco ad arrivare al punto giusto trovo idee. Il problema è ritornare. Molte volte gli artisti, non riuscendo a tornare indietro, si perdono.
E nel suo caso, come vengono le idee?
Dopo essere stato operato non riesco a compiere i miei viaggi, ma non sono disperato. Quando starò meglio ci riuscirò di nuovo. Ogni mattina, quando ritorno dal mio viaggio, scrivo le mie idee e mi dico “bene, oggi ho trovato venti idee bellissime”. Ma il giorno dopo le leggo e sono tutte una cazzata! Non ce n’è neanche una bella! Se una idea è valida è già un buon inizio. Un artista senza idee non è un artista. Il tempo importante è sempre il tempo presente e futuro. Se non riesco ad avere più idee allora dovrò smettere.
Sappiamo che non ama parlare molto della sua religione zen, ma molte delle sue pratiche possono aver influito sull’ordine compositivo delle sue sculture?
Lo zen è una delle scuole del buddhismo, molto libera e interessante. Ho studiato molto lo zen. Sono stato in un tempio a fare meditazione per dieci-quindici giorni con i monaci con cui vivevo. Nel mio lavoro non ho mai voluto portare la loro filosofia, il loro pensiero. Il mio lavoro è il mio lavoro e non mescolo la religione. Anche quando faccio dei “giardini” sono giardini miei.
Il fatto che lei utilizzi prevalentemente incastri, leve, connessioni materiche suggerisce che conosca le proprietà fisiche e chimiche dei materiali utilizzati.
Sì, per alcuni materiali è vero. Conosco più di altre persone alcuni materiali, ma non tutti. Studio anche quando mi viene una idea esteticamente e materialmente bella, nella misura eccetera. Per far stare in piedi l’idea e farla funzionare la devo studiare.
Quale sistema di giunzione preferisce?
Cento anni fa in una scultura di bronzo non c’era la saldatura con fiamma ossidrica, che è un’invenzione rinascimentale, ma fino ad allora si utilizzavano incastri invisibili in superficie. Dopo si saldava con il piombo, che fonde a una temperatura più bassa. A me non piace molto quella elettronica o con fiamma ossidrica, perché le temperature di saldatura e fusione sono diverse e con il tempo e le variazioni termiche si crepano. Credo sia meglio limitarle il meno possibile. Mi piace utilizzare sempre l’equilibrio con leve, pesi, gravità. Sono molto attento se la zona può essere colpita da terremoti o se ogni anno passa l’uragano. Considero tutte queste cose considero e uso questa tecnica solo in ambienti stabili.
E per quanto riguarda le sue installazioni contemporanee in contesti antichi?
Utilizzando l’ambiente antico, “antico” appunto significa che ha una qualità alta, le due opere si influenzano vicendevolmente e con l’ambiente e allora nasce un’altra qualità. Mi è sempre piaciuto realizzare nell’ambiente antico.
– Lorena Figliuzzi
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