Architetti d’Italia. Giacomo Leone, il complesso
Appuntamento numero 38 con la serie dedicata da Luigi Prestinenza Puglisi agli architetti italiani. Stavolta lo sguardo è puntato sul siciliano Giacomo Leone.
Vorrei cominciare questo profilo affermando che Giacomo Leone è stato il più bravo architetto siciliano del dopoguerra.
Cioè partendo da una dichiarazione spericolata che necessita di una spiegazione per evitare di farla apparire come una ingenuità critica imperdonabile, una dichiarazione di tifo calcistico.
Dire che Giacomo Leone è stato il più bravo vuol dire infatti che ci si rifiuta di considerare la sola, pur importante, eredità lasciata dal maestro riconosciuto della scuola palermitana, Pasquale Culotta, e si tenta di ridimensionare il giudizio su tutta la cosiddetta scuola siziana, che ha avuto e ancora ha l’egemonia nell’isola. Una scuola in verità composta da personaggi diversi tra loro, e che, a volte servita in salsa gregottiana a volte in salsa melodica, ha un solido radicamento nelle università di Palermo, Siracusa, Enna, tanto che l’entusiasmo è stato capace di mandare addirittura in tilt il traffico dell’autostrada Palermo-Catania una volta che l’architetto portoghese fu nel 2011 invitato da Maurizio Oddo a inaugurare con una conferenza una mostra a lui dedicata a Enna.
E vuol dire anche ridimensionare la figura oramai mitica di un architetto appartenente alla generazione precedente, il coinvolgente e multiforme Giuseppe Samonà, mettendone in luce, oltre alla indubbia maestria, anche le incertezze stilistiche determinate probabilmente da una cultura onnivora che faceva fatica a scegliere tra suggestioni di ogni tipo, in primis tra razionalismo e organicismo, tra Wright e Le Corbusier passando per tutta la tradizione italiana.
Vuol dire anche spostare i riflettori su Catania, una realtà in parte esterna al circo dell’architettura dell’isola. Un po’ perché una facoltà di architettura non la ha mai avuta (e quando l’ha generata, l’ha espulsa e ubicata a Siracusa) un po’ perché, rispetto alle altre realtà isolane, ha rappresentato per anni la città della concretezza, della produzione industriale, dell’ingegneria. Insomma: la Milano del Sud, come la chiamavano negli anni del boom economico. E difatti l’altro rimarchevole progettista catanese del dopoguerra è stato Matteo Arena, ingegnere e architetto.
SPAZIO, CONCRETEZZA E AZIONE
Giacomo Leone, pur essendo architetto-architetto, in quanto figlio del più importante progettista catanese del primo dopoguerra e fratello di altri due, era un divoratore di storia e di tradizioni. Sapeva parlarti per ore dell’intonaco fatto con la polvere di lava o di tecniche costruttive che stavano andando in disuso. Inoltre non ha mai avuto verso la storia quell’atteggiamento snervato ed estetizzante che ha ammorbato una certa immagine dell’architettura siciliana degli ultimi cinquanta anni. Sapeva che l’architettura è spazio, concretezza, agire. E si rifiutava di perdersi sia nell’ineffabile del dettaglio sia nella durezza di un imbalsamato rigore classicista.
Ricordo ancora una volta che mi portò a vedere l’Istituto nazionale di fisica nucleare che aveva realizzato nella periferia nord di Catania. Raramente, e non per colpa sua, ho visto un edificio così mal eseguito. Eppure, nonostante tanta sciatteria, teneva benissimo perché la buona architettura, come insegnano pochi grandi progettisti, riesce a sopportare porte con profili grossolani di alluminio, pavimenti da battaglia e anche controsoffitti a quadrotti in grado di mortificare qualsiasi spazio.
Giacomo Leone, come la gran parte dei migliori architetti catanesi di allora, aveva studiato a Venezia, insieme a Firenze una delle poche facoltà di architettura giudicate dalla buona borghesia degne di frequentazione. Lì aveva conosciuto l’opera di Bruno Zevi, un critico al quale rimarrà legato per tutta la vita: e forse questo è stato uno dei motivi della damnatio memoriae che sin da vivo ha colpito il suo nome (avvertenza per chi mi ha seguito fin qui: Giacomo Leone non ha niente a che vedere con Bibi, socio di Pasquale nello studio Culotta Leone). L’altro motivo era il suo carattere: amabile, mite e gentile e insieme difficile e insopportabile.
L’opera più importante di Giacomo è senza dubbio il complesso delle Ciminiere a Catania. Un magnifico recupero delle ex fabbriche di zolfo che si trovano vicino alla stazione ferroviaria di Catania, a poche centinaia di metri dal mare e dal centro storico. Anche in questo caso un’opera eseguita malamente, almeno per quel che riguarda gli spazi interni. Ma che è, a mio giudizio, la cattedrale del riscatto culturale dell’isola. Un complesso che testimonia che, solo si fosse voluto, la Sicilia avrebbe potuto essere tutta un’altra cosa. Non un luogo per esteti alla ricerca di rovine, specializzati nella poesia dell’ineffabile o nella costruzione di piccoli Zen, ma di produzione di idee, di iniziative, di incontri di alto livello. Costruito con ferro e intonaco lavico, in bilico tra compiutezza e non finito. Che sa recuperare la storia senza sdilinquimenti, che conosce bene i materiali della tradizione ma senza finti atteggiamenti vitruviani, che ha il coraggio di intervenire sulla città con rispetto ma senza rimanere ostaggio delle soprintendenze imbalsamatrici o del rigore da caserma.
POLITICA E DINTORNI
Giacomo Leone, come diversi altri architetti della sua generazione (è morto nel 2016 a 87 anni), è stato un visionario. Ha evitato di guardare solo alla architettura, immaginata come disciplina autonoma. Si è impegnato in politica: è stato consigliere comunale del vecchio PCI e, poi, impegnato con altri partiti tra i quali, se ben ricordo, il PSIUP, il partito socialista di unità proletaria, luogo di raccolta degli scontenti della sinistra di ogni genere. Ha scritto molti articoli, in particolare sul quotidiano La Sicilia, è intervenuto in tutte le principali vicende edilizie e urbanistiche della città. A volte prendendo colossali cantonate, come quando si è scagliato contro l’intervento, non eccezionale ma certo non eseguito dall’ultimo venuto, di Giancarlo De Carlo ai Benedettini o quello ancora in corso di Mario Cucinella per la riqualificazione di corso dei Martiri. E, per dirla tutta, a volte la sensazione era che quello che non usciva dalla sua matita fosse criticabile, sconclusionato, pericoloso. Ma certo è che poche cose erano effettivamente migliori delle numerose che ha prodotto il suo studio, per tanti anni uno dei più attivi a Catania e in cui si ideavano case per proletari a Librino ed edifici per la Catania bene nelle zone centrali o a mare. Tanto che diversi si sono chiesti quanto la politica fosse anche un volano professionale. Una domanda che però deve essere fatta per la gran parte degli architetti attivi dagli Anni Sessanta ai Novanta, e anche dopo, per i quali è praticamente impossibile separare passione sociale e strategia di ottenimento degli incarichi, numerosi dispensati dalle pubbliche amministrazioni in base a ferrei criteri di appartenenza.
UN CARATTERE DIFFICILE
Dicevamo che Giacomo Leone aveva un carattere più che difficile. Forse uno dei motivi che gli ha impedito di formare una scuola e un conflitto perenne con le istituzioni accademiche. E uno dei motivi che, nell’ultima parte della sua vita, lo ha portato a scontrarsi con l’ex sindaco di Catania Enzo Bianco. Con il risultato che, in morte, al più grande architetto siciliano del dopoguerra non è stata dedicata né una via né una piazza. E neanche il complesso delle Ciminiere, un’opera alla quale Zevi aveva offerto l’onore di essere pubblicata in una serie dedicata ai capolavori dell’architettura di ogni tempo. Un libro che nessuno ha avuto il coraggio ancora di scrivere, per paura di confrontarsi con un personaggio così complesso e forse anche di entrare in un archivio tra i più ricchi di informazioni e tra i più disorganizzati dell’architettura siciliana del dopoguerra, e anche dell’anteguerra se consideriamo le carte del padre, Raffaele Leone.
Dubito che qualche politico della nuova leva isolana leggerà questo profilo dedicato a Giacomo. Se lo farà, lo invito calorosamente a dedicargli il complesso delle Ciminiere. È vero che nessuno è profeta in patria. Ma gli è dovuto e di Leone, se amiamo la nostra storia come spesso a parole diciamo, dovremmo occuparci di più, tramandandone il nome a chi viene dopo di lui.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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