Street Art e calligrafia. Intervista con el Seed
Quarta e ultima tappa del nostro reportage dalla Tunisia. Dopo il racconto del Paese e della sua capitale, e dopo l’intervista a Lina Lazaar e Lilia Ben Salah, ai nostri microfoni c’è il più importante street artist del Maghreb: el Seed.
Il lavoro di eL Seed è una narrazione, un dialogo senza fine fra la storia universale dell’uomo e le storie individuali, in una declinazione continua tra cultura alta e cultura popolare. La calligrafia è il suo medium, con la sua estetica e la purezza di una scrittura dalle radici antichissime. eL Seed ha realizzato interventi su larga scala, autentici affreschi, nelle capitali del mondo, intervenendo spesso nei quartieri dove il disagio era la cifra caratteristica.
Che cos’è la calligrafia per eL Seed?
È una forma di poesia che non ha bisogno di essere tradotta, una forma di bellezza universale, una danza, un punto di congiunzione tra gli uomini, le culture, le generazioni.
La calligrafia come medium?
Sono nato e cresciuto in Francia da genitori tunisini e, durante la mia adolescenza, ho vissuto una crisi d’identità. Non sapevo se ero francese o tunisino o cos’altro, così ho deciso di essere solo tunisino e nel tempo mi sono reso conto che è stato un errore. All’inizio questa scelta mi ha spinto a imparare a leggere solo la lingua araba e, mentre approfondivo la mia cultura araba, ho scoperto la calligrafia. Mi ha permesso di riconciliarmi con la cultura francese. Oggi convivo con le mie diverse identità: quella araba, quella tunisina, quella francese.
Le tue opere hanno un valore politico e sociale.
Il fatto di lavorare in spazi pubblici e realizzare opere per contesti specifici in un dialogo diretto con una comunità ha una dimensione politica, per definizione. Come artista cerco sempre di evitare i messaggi naïf, genere “potere al popolo”. Quello che mi interessa è creare un dialogo attraverso il lavoro.
Concettualmente, come nasce il lavoro in un determinato luogo?
Innanzitutto da una profonda ricerca. L’intervento è sempre preceduto da una fase di studio. Faccio una ricerca sulla sua storia, sul contesto economico, politico e sociale, per far sì che il messaggio che scrivo sia in connessione con la cultura della gente, con il luogo. Quello che conta per me è legare il messaggio alla comunità. In questo modo si crea un legame tra le persone e il lavoro artistico.
E questo come avviene in senso pratico?
Incontro le persone e cerco di creare un dialogo con loro. Non è sempre facile, perché spesso la gente non parla. Insieme analizziamo le problematiche o i temi storici legati all’identità della comunità. Le idee nascono dalle conversazioni con la gente, segue poi la fase di studio, scientifico. Io non sono il genere di artista idealista che si siede di fronte al mare e cerca l’ispirazione: il mio lavoro inizia sempre con una storia già scritta, quella di un luogo, di una comunità.
Ottenere i permessi per lavori pubblici su larga scala in citta come Parigi, San Paolo o Doha è una difficoltà non indifferente…
Sì, è una parte del lavoro. Se si tratta di un’opera su commissione, ai permessi ci pensano le comunità. Quando sono mie proposte, questa fase del lavoro richiede molto tempo, pazienza, diplomazia. In questo caso è importante passare del tempo insieme agli abitanti del quartiere, della comunità, per fare conoscenza, in modo che si abituino alla mia presenza. Nel caso del Cairo [dove, nel quartiere copto di Manshiyat Nasr, ha realizzato Perception, enorme installazione estesa su diversi edifici, N.d.R.] [nella foto] era un progetto spontaneo, non ci sono stati permessi all’inizio, ma solo la benedizione del sacerdote copto, che per la comunità è un riferimento importante. Ogni progetto è un caso a sé. A volte è più facile ottenere i permessi dopo avere realizzato il progetto!
– Riccarda Mandrini
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