Talenti fotografici. Intervista con Anna Di Prospero
Un altro talento artistico, di quelli che utilizzano prevalentemente la fotografia per esprimersi. In una lunga conversazione con Angela Madesani.
Sin da adolescente Anna Di Prospero (Roma, 1987) è appassionata di fotografia e di pittura. Quando, finite le scuole superiori, chiede ai genitori di iscriversi al corso di fotografia allo IED di Roma, la risposta è negativa. Passa così alla Sapienza per studiare Scienze Umanistiche con indirizzo artistico, ma non demorde dai suoi propositi e pubblica le sue foto su Flickr. Quindi, grazie a una borsa di studio, nel 2008, dopo aver abbandonato l’università, si iscrive allo IED. Nello stesso periodo, da Latina Scalo la sua famiglia si trasferisce a Sermoneta.
Hai preso male il trasferimento, avevi nostalgia della tua vecchia casa e, per scoprire quella nuova, hai deciso di fotografarla. È nato Self portrait at home.
È un lavoro che ho fatto dal 2007 al 2009, tutte le foto sono state scattate all’interno della casa. Ogni mattina mi svegliavo, prendevo il cavalletto, il telecomando per l’autoscatto ed esploravo la casa creando dei piccoli set con me protagonista.
La tua faccia è sempre coperta.
Quasi sempre. Non ci tengo a ricondurre questa figura femminile alla mia identità, sono autoritratti di donna, non miei nello specifico.
Sono il contrario del selfie. La tua è, piuttosto, un’analisi di tipo linguistico.
Direi di sì. In tal senso mi interessa il lavoro di Amalia Ulman, una giovane artista argentina, che per tre mesi ha interpretato la parte di una It-Girl. Non a caso è stata definita “la Cindy Sherman del nostro tempo”.
Il tuo lavoro potrebbe essere definito performativo?
Davanti alla macchina fotografica avviene una piccola performance, ma io non sono certo una performer. Sono spesso protagonista delle mie foto: mi sono fotografata a Latina, la mia città, in estate, quando è deserta. Mentre nelle foto in casa ho sempre lavorato da sola, qui era presente anche il mio futuro marito. Mi interessava l’aspetto architettonico della città.
Quello della fotografia di architettura è un ambito prettamente maschile. Come ti poni nei confronti di questo genere? Sei interessata anche a questo mondo o ti interessa sempre che ci sia l’essere umano? Vuoi creare una relazione?
Ho una grande passione per l’architettura ma mi interessa che sia sempre il corpo a relazionarsi con lo spazio. Con lo IED, nel 2010 ho vinto una borsa di studio per andare a studiare sei mesi alla School of Visual Arts di New York. È stata un’esperienza determinante in tal senso. Fra l’altro, anche là ho fatto un lavoro sul luogo dove abitavo da sola, lontana dai miei affetti.
E al tuo ritorno? Cosa è successo quando li hai ritrovati?
Quando sono tornata dagli Stati Uniti ho iniziato a fare gli autoritratti con la mia famiglia. La prima foto è con mia madre, una foto con la quale ancora oggi vengo riconosciuta, con essa ho vinto un concorso. È una foto che abbiamo realizzato in dieci minuti. Per la foto che ho fatto in compagnia di mia nonna Eda, che oggi ha 93 anni, invece ho dovuto fare cinque scatti. La nonna non si piaceva ed era molto critica anche nei confronti del mio lavoro.
Ci sono quindi diverse direttrici…
I miei lavori sono divisi in tre gruppi: I am here, legato alla ricerca sui luoghi; With you, legato alle persone; e Beyond the visible, introspettivo.
So che nella tua vita è accaduto un episodio particolare, l’incontro con quello che allora era il sindaco di Roma, Walter Veltroni.
Un giorno un giornalista de La Repubblica ha visto le mie foto su Flickr e mi ha chiesto di pubblicarle sulla home page del giornale. Lo stesso giorno un utente con un evidente nickname mi ha inviato un messaggio su Flickr. Mi ha scritto: “Ho visto le tue foto sul sito di Repubblica, sono molto belle. Ti va di fare una mostra durante la notte bianca? Walter Veltroni”. Sfido chiunque a credere a un messaggio del genere. Ringraziai l’utente per i complimenti, ma gli dissi che non credevo fosse il sindaco. Mi disse che era realmente lui e per testare la sua identità mi diede il numero del Campidoglio e la sua mail. Il telefono dava sempre occupato mentre la mail tornava indietro e mi convinsi che fosse uno scherzo. Un mio amico mi spalleggiava in questa vicenda. A ottobre il mio amico mi chiama per dirmi che, in un articolo sulla rivista Rolling Stones, Veltroni ha raccontato la storia. Sono ritornata all’attacco e alla fine sono riuscita a mettermi in contatto con lui, che mi ha fatto fare una mostra durante il Festival Fotografia a Roma.
Beh, una bella storia di buona politica. Sembra una fiaba. Veniamo a Beyond the visible: fra i tuoi progetti, è quello che mi interessa di più.
Ho dato vita a queste composizioni senza impormi nulla. All’inizio mi sono posta come di fronte a uno storyboard cinematografico. Ho anche ripescato delle immagini del mio passato. Ho iniziato a fare queste foto senza chiedermi perché sentissi l’esigenza di realizzarle. Si potrebbero riassumere come una relazione tra macrocosmo e microcosmo. In quel periodo, inoltre, ho visto un film che mi ha aperto un mondo: The tree of life di Terrence Malick. A Latina ho studiato al liceo classico cinematografico, una scuola che non esiste più e che è stata per me fondamentale.
Tra le foto sono presenti parecchie immagini di galassie, che mi fanno ricordare certi cieli del Correggio.
Sono partita da realtà diversissime tra loro per ottenere queste cosiddette galassie. Ho fatto parecchia postproduzione. È un lavoro intimo, mi piace condividerlo con lo spettatore che, tuttavia, deve essere libero di leggere in esso quello che vuole.
Come lo “spettatore emancipato” di Jacques Rancière.
Sono lavori realizzati in momenti diversi, alcuni nel 2012, altri nel 2017.
In molte delle tue foto si coglie una sorta di trascendenza, soprattutto in Beyond the visible. Un’atmosfera sottolineata da titoli come Rêverie e Ardor.
È vero, ma è un aspetto che non ricerco nel momento in cui scatto le foto. Forse, in parte, c’è già anche nei primissimi lavori. Molti mi dicono che trasmettono un senso di assenza, di silenzio.
Il futuro: stai facendo altri lavori?
Sì, certo, però non ne voglio parlare. Sono scaramantica.
– Angela Madesani
ha collaborato Lara Morello
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44
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