Balthasar Burkhard a Lugano. L’intervista ai curatori
Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato nei dettagli la grande monografica di Balthasar Burkhard allestita al MASI di Lugano. Per chi ancora avesse delle curiosità, qui trovate la doppia intervista al direttore del museo, Tobia Bezzola, e al curatore della mostra, Guido Comis.
Alla base della grande monografica di Balthasar Burkhard c’è un’importante collaborazione, tra il Folkwang Museum di Essen, il FotoMuseum e la Fotostiftung Schweiz di Winterthur e il MASI di Lugano. Abbiamo chiesto a Tobia Bezzola, direttore del Museo d’arte della Svizzera italiana, e al curatore Guido Comis di parlarci delle problematiche incontrate e delle scelte compiute per giungere alla tappa ticinese dell’esposizione.
Quando è nato il progetto di questa iniziativa e quanto tempo ha richiesto la sua realizzazione?
Tobia Bezzola: La fase di studio ha avuto inizio nel 2013, quando ho proposto a Florian Ebner [oggi al Dipartimento di Fotografia del Centre Pompidou di Parigi, allora curatore della Photographic Collection del Museum Wolfgang di Essen, di cui proprio Bezzola era direttore, N.d.R.] di dedicare un progetto a Burkhard, che lui conosce e ama molto. Tutto il primo periodo del fotografo ha richiesto molta ricerca, perché per Burkhard stesso la carriera artistica aveva inizio con le stampe su tela e tendeva a non esporre le opere precedenti.
Altro aspetto cui abbiamo prestato particolare attenzione è l’allestimento, che andava ripensato per ogni tappa; penso però che i limiti imposti dai diversi spazi rendano più interessante il processo di adattamento: non cambia solo l’apparenza fisica del display, sono diverse le stesse scelte curatoriali. E credo che la “versione” della mostra qui a Lugano funzioni molto bene. Non è un’esposizione molto estesa, ma comunque ci dà un’immagine completa dei quarant’anni di carriera di Burkhard.
A quante opere avete dovuto rinunciare, rispetto a Essen, per ragioni di spazio?
Guido Comis: In realtà, è un problema che non mi sono posto troppo: la mostra di Essen era estremamente ricca, ma c’era il rischio che si perdesse la coerenza estetica e la leggibilità, a favore della documentazione. All’interno di un allestimento, che a beneficio del pubblico deve proporre una visione possibilmente lineare, si può creare confusione. Nel mio caso, ho cercato di documentare i passaggi artistici rilevanti evitando però ridondanze; complice certamente lo spazio, che ci imponeva di compiere delle scelte.
Non avete avuto dubbi, invece, nel riproporre gli straordinari – e voluminosi – allestimenti degli Anni Ottanta.
G. C.: Assolutamente, anche se non in tutte le sedi erano presenti. A Winterthur, per esempio, si è rinunciato a proporre il colonnato con le opere affiancate di Toroni e Burkhard. Non si è trattato quindi di scelte allestitive passive. Anzi, rispetto alle precedenti edizioni del progetto, abbiamo richiesto in prestito alcune opere, che non comparivano nelle altre tappe.
Per esempio?
G. C.: Una fotografia di Chicago. Non potendo esporre la serie incentrata sulla sede di Ricola, progettata da Herzog & de Meuron, abbiamo scelto la veduta di Chicago che, pur essendo aerea, con tutta la spigolosità dei grattacieli manifesta la sensibilità di Burkhard per l’architettura. Abbiamo per contro rinunciato ad altre fotografie di città, nonostante siano a disposizione nel deposito del MASI, perché ribadivano un aspetto già trattato.
Che reazioni vi aspettate? Si tratta di un artista contemporaneo, non conosciuto presso il grande pubblico, sicuramente non in tutta l’ampiezza della sua opera…
T. B.: Io non penso in termini di classico, moderno, contemporaneo: cerco di capire il contesto, il gusto e le conoscenze del pubblico. Non dobbiamo ingannarci: ogni luogo è differenze, l’arte non è omogenea e neppure il suo apprezzamento. Ci sono enormi diversità nelle preferenze a livello locale, regionale, nazionale. Al MASI vogliamo rispettare il gusto del pubblico: cerchiamo sempre di andare un po’ oltre, ma proponendo opere e artisti che hanno un rapporto con quanto è già conosciuto, recepito. Burkhard mi sembra un buon esempio per illustrare questo approccio.
‒ Caterina Porcellini
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #11
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