La Street Art, il Molise e l’essere donna. Intervista ad Alice Pasquini

Alice Pasquini è un'artista italiana, una delle poche donne attive nell’ambito della Street Art. Laureata all'Accademia di Belle Arti di Roma, è inserita, con pochi altri street artist, nell'Enciclopedia Treccani. Seguitissima sui social, nel corso della sua carriera ha realizzato opere sui muri di Parigi, Amsterdam, Londra, Berlino, Oslo, Mosca, New York, Buenos Aires, Melbourne, Singapore.

Partirei dai tuoi ultimi progetti e dalle ultime esperienze. A cosa ti stai dedicando adesso? 
Sono appena tornata da un lungo viaggio. Amsterdam per preparare una mostra, Copenaghen al Festival Musicale Roskilde e poi in Grecia, invitata dall’Unicef per dipingere un muro assieme all’artista Achilleas Souras ed ai bambini del campo migranti di Skarmangas. Sono sempre in viaggio, ma il luogo dove amo tornare, oltre a Roma, dove sono nata, è Civitacampomarano, un meraviglioso borgo molisano, dove da tre anni organizzo il Cvtà streetfest.

Com’è nata l’idea di un festival in Molise?
Sono arrivata a Civita cinque anni fa per una coincidenza. Ero a New York quando ho ricevuto l’invito dalla Pro Loco del paese per dipingere lì, ma ciò che l’autrice dell’email non sapeva è che mio nonno era nato e cresciuto a Civita. Così, quando sono arrivata, sono riaffiorati in me i ricordi di quando ero bambina. Soprattutto la commozione è stata vedere la resistenza di queste persone che continuano a vivere fuori dal mondo, senza abbandonare le loro radici. Ora il paese è ridotto a 150 anime, soprattutto anziani. Le scuole hanno chiuso da tempo. Ho dipinto sulle vecchie porte e sui muri delle case abbandonate le scene di vita di un tempo. Dopo il mio passaggio a Civita si sono cominciati a vedere i primi turisti. È nata da qui l’idea del festival, l’arte urbana che aiuta a risollevare l’economia del paese, ma soprattutto fornisce una prospettiva di vita agli abitanti per contrastare lo spopolamento che ha investito la regione negli ultimi decenni.

Com’è strutturato il festival e quali sono i suoi obiettivi?
L’arte, la pittura, la volontà, le idee possono smuovere e sensibilizzare le coscienze. L’obiettivo è stabilire un legame con le radici culturali del luogo con un approccio e uno sguardo contemporanei. Oltre alle performance artistiche realizziamo workshop con lo scopo di divulgare l’abilità artigianale del posto, le specialità culinarie, l’arte del ricamo. Una sfida, all’inizio senza sponsor. Siamo partiti da quello che avevamo, dalle nostre possibilità. Ora siamo alla terza edizione. Il festival è cresciuto moltissimo nel corso degli anni. È incredibile vedere quanto l’arte possa “fare” anche in luoghi del genere.

Alice Pasquini, Roskilde Festival, Copenhagen, 2018

Alice Pasquini, Roskilde Festival, Copenhagen, 2018

Ti dedichi principalmente alla Street Art. Pensi che il tuo percorso artistico proseguirà in questo senso, anche nei prossimi anni?
Ho studiato arte e sapevo fin da piccolissima che avrei fatto la pittrice. Il percorso dei graffiti è stato inaspettato. Stavo già lavorando come illustratrice, ero molto giovane, i graffiti per me erano un modo per reagire all’accademismo, a quello che i miei professori prima al Liceo artistico, poi all’Accademia delle Belle Arti mi dicevano: “L’arte è morta, dimentica la pittura”. Lo studio mi stava facendo perdere il “romanticismo”. Invece nel dipingere in strada, la fantasia, l’ispirazione nascono proprio da una superficie specifica, da quel luogo specifico perché Oslo non è Mosca, non è Marrakesh. Perché i colori cambiano da luogo a luogo, il muro non è una tela, ha una sua storia, il suo contesto dal quale non riesco a prescindere. Per me è più interessante come ricerca. Sicuramente se, a quattordici anni, mi avessero detto che un giorno avrei girato il mondo per dipingere dei muri giganti, non ci avrei creduto! Di solito sperimento abbastanza sia con i materiali, sia con le tecniche. Ho dipinto più di 2mila muri in tutto il mondo, grandi e piccoli. Mi manca forse solo di andare in Antartide!

Era il lavoro che avresti voluto fare?
Non era un lavoro, era la mia passione. Pensavo che l’arte potesse essere un lavoro, non certo i graffiti. La mia ricerca sulle strade è stata personale, è come se il valore dell’opera d’arte non fosse l’opera in sé, ma il momento in cui viene creata, e anche il momento dopo, quando io sono andata via e lo spettatore ci si imbatte nel cammino, magari mentre va al lavoro, o sta tornando a casa. In questo senso trovo ci sia “innovazione” in questo tipo di arte. È la prima volta nella storia dell’arte in cui in tutto il mondo ci sono degli interventi così grandi su diversi piani, che possono cambiare anche i quartieri.

La storia dei murales è antica…
Senz’altro il muralismo ha una storia vecchia, però è la prima volta che gli artisti dipingono quello che vogliono, dove vogliono. Il muralismo lo conosciamo, si crea un bozzetto per poi farselo approvare. Si lavora sotto “ideologia”, in un certo senso. I graffiti sono nati negli Anni Cinquanta e sono arrivati fino a noi con l’etichetta della Street Art. Adesso la Street Art è tornata chiaramente a essere muralismo. Il mercato dell’arte, il sistema dell’arte sono due cose che vanno affrontate, se fai questo mestiere nella vita. Anche se come artista vorresti scappare dal sistema. Mantenere il romanticismo degli inizi, quello da adolescente, oggi per me significa partecipare a progetti collettivi. Vado a dipingere sui muri che hanno un significato. Mi reco in luoghi con “veri” muri, anche muri di separazione. Vedo che aumentano nel mondo. Mi piace poter lavorare con gli immigrati, in Italia o a Roma, la mia città, o per gli italiani all’estero. Mi dedico a progetti sociali.

Alice Pasquini, Ho Chi Minh, 2013. Photo Jessica Stewart

Alice Pasquini, Ho Chi Minh, 2013. Photo Jessica Stewart

Negli anni la tua tecnica è cambiata?
Sui muri non è cambiata, uso i rulli con l’acrilico. Faccio delle proporzioni senza proiettore, senza griglia, solo con l’occhio umano, questa è la capacità tecnica che mi ha portato a realizzare queste opere in tutto il mondo, anche su tanti piani, per cui mi servo di prolunghe per i rulli e poi utilizzo lo spray. Per la ricerca in studio, dipingo su oggetti abbandonati che trovo sulle strade, nelle città durante i miei viaggi. Li tengo in studio immobili fino a che non trovano nuova vita per una mostra o un progetto specifico che ho in mente. Mappe, segnali, porte, frigoriferi, vecchi legni: ogni strumento vuole il suo supporto, quindi se dipingo sul ferro uso degli smalti, se si tratta di legno l’acrilico.

Come avviene il processo creativo? 
È il contesto, il luogo, la forma del muro a ispirarmi. Tutte le miei idee prendono vita su un quaderno che porto sempre con me, in giro per il mondo e lì appunto. La mia arte tratta di sentimenti umani e del rapporto tra le donne, le persone, in un tentativo disperato di parlare di quello che ci lega, piuttosto che di quello che ci divide, rischiando di essere banale. Però per me la necessità è veramente di poter rappresentare quei sentimenti umani, che poi sono uguali da una parte all’altra del mondo. Mi affascina il contrasto di una storia privata in uno spazio pubblico, questo è lo scarto. Sono cose molto intime in dimensioni molto grandi. Mi dà una grande soddisfazione ricevere da parte delle persone degli apprezzamenti perché si identificano o identificano i parenti nei soggetti che dipingo. Sono una ritrattista del tratto universale del sentimento umano! Quando ho cominciato, in strada non esisteva un linguaggio di questo tipo. La donna è stata ed è spesso ritratta dai miei colleghi maschi non come una persona normale, con un sentimento specifico, ma quanto piuttosto come un’eroina dei fumetti super sexy.

La tua ricerca infatti è sempre rivolta all’universo femminile.
Prendo la donna come rappresentazione di un sentimento, un sentimento umano, semplicemente. La donna nello scenario metropolitano non è rappresentata come un individuo singolo pensante, ma come una mamma, o come un oggetto sessuale. In questo senso non c’è spazio per una rappresentazione normale, quindi a volte anche la visione di una donna incinta, ad esempio, scandalizza di più la signora che guarda la pubblicità gigante con una donna nuda. Come è possibile? Eppure la normalità diventa paradosso e fastidio. Nel mio caso ho utilizzato uno stile molto pittorico, uno stile che non era per niente simile a quello dei graffiti. L’effetto è stato di rottura, anche rispetto al segno dei graffiti che è una linea molto chiusa, delimitata. Lo stile pittorico, con le linee grosse, è una cosa diversa da vedere per la strada. Adesso siamo abituati a osservare sperimentazioni continue, però dobbiamo pensare che, fino a qualche tempo fa, tutto ciò non esisteva. E la cosa importante della Street Art è stata riportare l’interesse, per me mai tramontato, per la pittura da parte delle persone comuni. All’epoca un mio professore sentenziava: “L’arte è morta con Duchamp, finirete tutti in Via Margutta“. Una sorta di terrorismo psicologico! La pittura era ormai quasi morta. Con la Street Art è stato interessante vedere i cittadini richiederne sempre di più, fino a che non è diventata un mercato a sé, con le sue aste, con le sue gallerie, con i suoi costi. Questo movimento è attivo da quasi cinquant’anni. Un movimento voluto anche dai cittadini, in un momento storico in cui non si dipingeva più.

Alice Pasquini, Hamburg, 2016

Alice Pasquini, Hamburg, 2016

Qual è il tuo pubblico?
È un pubblico con un’età compresa tra i 25 e i 60 anni. Non mi sorprende il collezionista d’arte che compra dieci pezzi insieme, a me sorprende quella persona che non ha mai comprato un quadro, che guadagna 1.500 euro al mese e che comincia a collezionare. Questo tipo di collezionismo sovverte un mercato dell’arte un po’ cinico. Anche se tutti noi artisti dobbiamo entrare in quell’ottica, l’aspetto incredibile di questa forma d’arte è che ha avvicinato persone che non se ne sarebbero mai state interessate, che non sono mai andate a vedere una mostra, non hanno mai comprato un pezzo prima, non sono mai andate a un’asta. Il mio pubblico, alla fine, sono i cittadini, i passanti.

In Italia, secondo te, cosa può essere fatto in più per la Street Art? 
Siamo quasi al riflusso di questo movimento di arte spontanea, che è nato come una rottura, ma è chiaro che ormai anche la moda o le grandi marche lo ritengono un linguaggio diffuso. Tanto è stato fatto, anche in termini di riqualificazione; sicuramente quello che le istituzioni potrebbero fare – e che stanno facendo, anche se molto in ritardo rispetto all’estero – sono le acquisizioni. So bene che in Italia abbiamo tante cose da conservare, non abbiamo spazio e tempo, però sarebbe ora. La Treccani lo ha fatto inserendo me e altri artisti nell’Enciclopedia. Per le istituzioni è importante riconoscere questo tipo di opere, all’interno dei musei o nelle collezioni pubbliche. Da tutto questo patrimonio di immagini potranno rimanere delle foto e dei video. Non dimentichiamo che è un’arte effimera.

A questo proposito, come vivi il rapporto con la parte effimera di quest’arte? Le opere sono all’aperto, dunque deperibili.
Sono affascinata da come l’opera evolva nella città. Io la realizzo attraverso la mia creatività, però quella cosa rimane lì. I passanti potrebbero scriverci sopra o cancellarla. Spesso succedono vicende molto diverse e molto divertenti; a volte i cittadini coprono di bianco una parete che è piena di segni e lasciano solo il mio disegno. Ma per me quello non è più il mio disegno. Qualcuno, insomma, vuole salvare qualcosa per renderla di valore, e magari gli applica una cornice intono. Come dire che tutto quello che è dentro una cornice è arte! È un concetto un po’ antico. Magari avevo scelto quella superficie proprio perché abbandonata. Non sono affezionata alle mie opere. Siamo consapevoli che le pareti verranno ricostruite o le porte staccate, le opere in strada possono essere rubate, possono scriverci sopra. Però è divertente il fatto che, facendo una ricerca su Instagram, ad esempio con l’hashtag #AlicePasquni, puoi trovare nel mondo quello che ho dipinto. Quando ho cominciato a disegnare riuscivo a malapena a scattare una foto. Dipendeva se con me avevo la macchina fotografica. Poi stampavo la foto la mettevo sul diario e al massimo la vedevano gli amici!

Che rapporto hai con i social?
Come una che ha avuto un’infanzia analogica. Ho 37 anni e ringrazio di averla avuta. Anche se penso che Internet e i social siano una grande opportunità per gli artisti, un modo per diffondere la propria arte e per conoscere una rete di persone in tutto il mondo, un po’ li temo. Preferisco i contatti reali. Quella della Street Art è una vera e propria comunità; quindi gli artisti si conoscono tra loro e c’è uno scambio interessante. Gli artisti, poi, viaggiano tantissimo e si incontrano nel corso di molti viaggi: questo ha unito la comunità internazionale.

Alice Pasquini, Civitacampomarano, 2015. Photo Jessica Stewart

Alice Pasquini, Civitacampomarano, 2015. Photo Jessica Stewart

In che luogo vorresti andare?
Andrò con l’Istituto Italiano di Cultura in Brasile, dove non sono ancora mai stata. Poi andrò con un altro progetto culturale di fronte al Madagascar. A settembre sarò a Stavanger in un festival importante. Il desiderio di viaggiare l’ho sempre avuto, per questo non ci si affeziona a un luogo, perché ogni luogo diventa un pretesto per conoscere. Andare come me in una di queste città significa non seguire percorsi stabiliti. Attraverso le città in un altro modo.

L’epoca in cui vorresti vivere.
California, Anni Sessanta: non dev’essere male! Viviamo un periodo storico triste, la mia adolescenza è stata abbastanza spensierata, in fondo gli Anni Ottanta e parte dei Novanta sono scorsi abbastanza tranquilli. Essere adolescente oggi non dev’essere facile. Abbiamo i mezzi ma la situazione in generale è complessa. Credo che anche gli artisti oggi si sentano in dovere di rappresentare temi sociali. Adesso cerco progetti più piccoli ma collettivi, come questo festival del paese abbandonato. L’Italia è piena di posti meravigliosi, l’arte può servire ad accendere una luce concreta. Lì c’è della terra che nessuno coltiva più, delle case che crolleranno. Ci sono tanti paesi così anche in Portogallo o in Spagna. Noi cerchiamo di salvare un bagaglio culturale che stiamo accettando di perdere.

Chi ti piace in particolare oggi e quale fra i modelli classici hai seguito o segui?
Dopo i miei primi amori dell’infanzia come Leonardo, a diciotto anni ho fatto un giro delle Ville del Palladio e del Veronese: l’idea dell’arte in relazione all’architettura deve avermi molto influenzata. Sicuramente anche il Dadaismo, per il suo concetto di rottura. Studiare l’arte è un po’ come studiare la musica classica, a un certo punto pensi che quasi tutto è stato fatto. Per me lì è nata la necessità di trovare una mia strada. Andavo a scuola e c’era il cavalletto con la modella e già incominciavo a usare gli spray. In fondo entrambe le situazioni hanno formato il mio stile. Le ragazze nel panorama internazionale sono sempre state poche, cinque o dieci al massimo. Oggi ne vedo sempre di più. Ho per questo deciso di firmare sempre con il mio nome. Non ho uno pseudonimo. Per me è importante che anche le altre giovani si possano identificare, sapendo che “quest’opera l’ha realizzata una donna“.

– Alessia Tommasini

www.alicepasquini.com

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Alessia Tommasini

Alessia Tommasini

Sono veneta di nascita, ho abitato per anni a Roma e ora a Firenze. Mi sono laureata in Filosofia a Padova e subito ho cominciato a muovere le mie prime esperienze nel campo della creatività e dell'arte, formandomi come editor,…

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