Il futuro è nell’agritettura?

Ai neologismi ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Ora è la volta dell’agritettura, crasi fra le parole ‘agricoltura’ e ‘architettura’. E naturalmente c’è tutta una filosofia green dietro il termine. Ecco cosa sta succedendo in Europa e in Italia a questo proposito.

Negli stessi mesi in cui la tecnologia della stampa 3D in cemento, applicata all’edilizia residenziale, si appresta a compiere il passaggio dalla prototipazione alla costruzione di edifici da introdurre nel mercato immobiliare – lo testimonia la recente operazione Project Milestone, lanciata nei Paesi Bassi – inizia a muovere i primi passi anche la cosiddetta “agritettura”. Nell’aprile 2018 la testata The Sunday Times ha dedicato alla “stealthy ascent of agritecture” un’analisi del tema, con alcuni esempi. Al sensazionalismo suscitato da una parte dell’architettura contemporanea, con crescenti livelli di complessità compositiva e di “appariscenza visiva”, la giornalista Gabriella Bennett ha contrapposto realizzazioni votate alla sobrietà e orientate al recupero della dimensione rurale. “Agritecture is the portmanteau word you need to know this year”, ha affermato l’autrice, soffermandosi su progetti ispirati a un’idea di semplicità, con tecnologie desunte dalle basiche strutture agricole. Il vocabolo armonizza in un’unica formula ‘agricoltura’ e ‘architettura’; fin dal suo debutto, è stato impiegato con una certa elasticità, finendo per essere associato a un’indefinita gamma di interventi, comprensiva anche degli innesti verdi nello spazio urbano.

Een Til Een, Biological House, Middelfart 2017. Photo © Een Til Een

Een Til Een, Biological House, Middelfart 2017. Photo © Een Til Een

L’ESPERIENZA ITALIANA

In Italia, un’esperienza intrapresa dall’Ordine degli Architetti di Firenze a partire da Expo Milano 2015 delimita il campo d’azione dell’agritettura, fornendone una connotazione basata sull’innovazione e meno bucolica. “All’inizio, l’idea è stata parafrasare lo slogan dell’esposizione universale in ‘Nutrire il cantiere’”, racconta ad Artribune l’architetto Egidio Raimondi, ex presidente dell’Ordine degli Architetti di Firenze, attuale consigliere dello stesso e coordinatore del gruppo DAS – Dibattito Architettura Sostenibile. “Milano, emblema della produzione industriale nazionale, soprattutto per il design, ci ha spinti a riflettere sulla possibile riformulazione del concetto stesso di fabbrica. Ci siamo chiesti se sarebbe stato possibile considerare i campi come le fabbriche del futuro”. Una “provocazione” ben presto tradotta in un’attività di ricerca condotta dall’Ordine, dalla quale è emerso un fertile microcosmo di sperimentazioni che abbraccia il design e l’architettura: dalle lampade realizzate con le barbabietole alla pelle vegetale ottenuta dalle vinacce; dalla rinascita dell’interesse verso paglia e canapa fino alla consapevolezza delle eccellenti prestazioni del bambù, come insegna l’architettura asiatica.
Da questa indagine è nato un ciclo di convegni, a frequenza annuale, per una ricognizione finalizzata a fare rete. Dopo l’esordio nel 2017, quest’anno l’incontro Agritettura. Alimentiamo la rete: dal dire al fare ha spostato l’asse della ricerca alla produzione, chiamando a raccolta aziende, start-up e imprenditori attivi nello sviluppo di applicazioni dell’agroalimentare in architettura. Su tutti, afferma Raimondi, a emergere è stata l’avventura imprenditoriale di Salvatore Pepe e della sua Mosaico Digitale, con sede a Ferrandina (Matera): “Un’esperienza straordinaria dal punto di vista delle tre categorie della sostenibilità – sociale, ambientale ed economico –, perché in un territorio come la Basilicata ha dimostrato come si possa riconvertire una precedente impresa, avviata al fallimento, nel segno dell’economia circolare e della chimica verde, salvaguardando posti di lavoro”. Vincitrice nel 2017 dell’Architizer A + Award – categoria Materiali per Interni e Superfici – con il prodotto BioResin Tile, l’azienda produce rivestimenti in bioresina, impiegando materie prime naturali, come olio di soia proveniente da coltivazioni locali. Un esempio, dunque, di “agricoltura no food”. Infatti, oltre ai due macro-ambiti applicativi – architettura e design –, quando si parla di agritettura è necessario distinguere tra produzione con materiali derivanti da coltivazioni e impiego di scarti agroalimentari. Terreni inquinati o inadatti alla produzione agroalimentare possono accogliere coltivazioni come quella della canapa, materiale noto per la sua capacità di bonificare la terra, che in edilizia, tra gli altri usi, è utile per ottenere pannelli isolanti. Un esempio? Il percorso di fitorisanamento a basso costo attorno allo stabilimento ILVA di Taranto. Oltre a “piantare i materiali”, si possono lavorare gli scarti dell’agroalimentare. “Pensiamo al carciofo”, sottolinea Raimondi, “che ha l’80% di scarto: da quello che non consumiamo si possono estrarre delle fibre, che finiscono in una matrice biopolimerica utilizzata in una sorta di vetroresina”.

Een Til Een, Biological House, Middelfart 2017. Photo © Een Til Een

Een Til Een, Biological House, Middelfart 2017. Photo © Een Til Een

QUESTIONI PRATICHE

Come passare dalle parole ai fatti? In Italia andrebbe intrapresa una politica culturale dedicata, per “smascherare gli eco-furbi” e scardinare pregiudizi sul fronte economico: “Rispetto ai materiali convenzionali”, precisa Raimondi, “queste soluzioni restano un po’ più onerose, ma non lo sono in termini assoluti, ovvero valutando l’intero ciclo di vita. Sarebbe sufficiente smettere di sottovalutare i costi indiretti, legati allo smaltimento e al suo possibile reinserimento in un nuovo ciclo produttivo, che in questi casi sono decisamente più bassi. In Europa ci sono Paesi in cui la sensibilità sul tema della qualità e della sicurezza dello spazio abitativo è ben radicata e prevale sugli aspetti di carattere estetico. La coscienza ecologica è meno di facciata e più concreta”. Non a caso, nel 2017 è stata la Danimarca a presentare la prima Biological House: progettata dallo studio Een Til Een a Middelfart, affianca tecnologie digitali e materiali di origine biologica di alta qualità.
Anche alle nostre latitudini, tuttavia, un cambio di atteggiamento non sembra essere un’utopia: le conoscenze tecniche sono a buon punto e potrebbero combinarsi al patrimonio diffuso di tradizioni costruttive green, risalenti all’età preindustriale, da attualizzare agli attuali standard di comfort. Fra gli altri aspetti rilevanti, secondo Raimondi, “le esperienze di prefabbricazione a secco potrebbero contribuire a ridare centralità alla figura dell’architetto, dopo decenni nei quali la middle class dei progettisti ha subito un grosso scippo di autorevolezza nel processo edilizio”. Le applicazioni non sarebbero circoscritte al settore privato: “Possibile che i progetti di rigenerazione urbana, come quello per l’ex Manifattura Tabacchi di Firenze – 93mila mq – non possano essere concepiti come occasioni per avviare una sperimentazione? Basterebbe impiegare una quota della superficie a una sorta di ‘edificio campione’, destinato anche all’attività di monitoraggio, fondamentale nei processi di innovazione. Sarebbe un ragionamento da fare”, auspica Raimondi.

– Valentina Silvestrini

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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