Summer Theory No. 2 (VI)
“L’arte dovrebbe essere tutt’altro, e sconvolgere le menti, sconvolgere gli assetti, mettere sottosopra i concetti”. Nuovo capitolo della “Summer Theory” di Christian Caliandro.
Quindi, l’opera riuscita è un oggetto (o anche non un oggetto) che costantemente riduce il suo status e la sua apparenza di opera, che tende infinitamente e informalmente verso lo statuto “reale” e quotidiano eppure rende indefinitamente palpabile la linea di demarcazione, la differenza tra i due territori – in un istinto di riduzione, di inserimento volontario nel flusso e di distanziamento altrettanto consapevole dal flusso – “opere” come personaggi di una rappresentazione, come indicatori, piccoli operai, salti della memoria, vibrazioni inutili, sbalzi umorali.
Ricucire il legame con il rito e con il sacro – un rituale è una relazione ripetuta, un legame stabilito e condiviso, solido, un mutuo riconoscimento, uno sprofondare nel tempo, un abbandonarsi.
Sparire del tutto, una vita che minaccia di svanire improvvisamente, senza lasciare traccia – ecco cosa mi hanno insegnato i padri, una minaccia che non è neanche una minaccia, la palta invade ogni stanza, armi spuntate, roba di pessima qualità…
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Posti comuni, del tutto ordinari – evitare la retorica dei luoghi abbandonati, dei luoghi storici, dei luoghi “affascinanti” – inserire le opere come in un circuito elettrico, e l’elettricità è la vita quotidiana, anche un po’ becera, in ogni caso la vita nel suo farsi, come processo in corso, la normalità e la straordinarietà della vita come perturbazione, interferenza, rumore bianco (e non l’unicum di un palazzo storico o, mettiamo, di una casa di pregio disabitata).
In questo senso, il vernacolo è il tessuto connettivo: vernacolo come lingua e come stile.
“Time is running out / I don’t know what I’m waiting for” (Trent Reznor).
Lungo la costa adriatica (b). Auto accatastate – camion – tubi industriali attorcigliati – silos, e scale aggrovigliate attorno ai silos, e mare dietro – tetti spioventi, mattoni rossi, muri bianchi – mare, schiuma, rocce, ombrelloni – frangiflutti – come sparire completamente – palme, campi da beach volley (con rete attorno), rimessaggi di barche – muri bianchi dipinti di recente, lisci, ringhiere metalliche – villette e condomini geometrili – pini, pali della luce, una scultura nera contemporanea – finestre, scale, corrimano azzurri – campeggio in riva al mare, una bandiera italiana.
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10 luglio 2018. Ho trovato questa foto di Marilyn Monroe del 1955: l’ha scattata Milton H. Greene durante un pomeriggio nella villa di un amico in Connecticut; fa parte di una piccola serie, e questa in particolare all’epoca non era stata pubblicata. Lei ha in mano un bicchiere con due dita di whisky, e uno sguardo splendidamente birichino. Poi, un lampo, una lama di cristallo e una vampa di calore – l’espressione, la piega della bocca, lo sguardo, il sorriso, il rapporto tra le sopracciglia e i capelli biondi sono gli stessi – gli stessi – di mia madre. Nelle fotografie successive di vent’anni a questa. Forse, e dico forse, l’immortalità è questa cosa qui: due dee fermate in un pomeriggio d’estate, in un’unica immagine, in un solo volto. Da contemplare.
Non decorare né impreziosire – ma fondere. Fermare senza fermare. Intrecciare. Tessere. Illuminare. Confondere.
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(Rispetta ogni vita. / Scarta il gelato. / Evita il matto. / Sospira in attesa. / Ama l’asfalto. / Resisti sulla spiaggia. / Racconta un abisso. / Una mattina in dispersione – una mattina in concentrazione. / La religione matriarcale? / La religione patriarcale. / Uno scontro di civiltà. / Debole senso dell’infinito. / Realtà e mistero. / L’enigma di Bacon. / Viviamo girati dall’altra parte. / Il realismo è solo tragedia. / Un effluvio di carne estiva.)
La Cosità. Il Desiderio di Essere Vero. Una tristezza mi invade, con gloria. Stavamo bene. Io sono; io sono stato. Il mondo crolla – crollano gli ecosistemi. Sbrilluccicano. Così tanta energia, dispersa – così tanti futuri, in pericolo – così tanti cervelli, indifferenti – e poi ti guardo, e provo un’immensa speranza (soffusa di musica ambient) – speranza che tu possa davvero cambiare le cose – il mondo ha davvero qualcosa di storto – l’evoluzione comincia – non so dove andare – ma il “sistema” è insufficiente (questo lo so) – il mondo è andato avanti, la Torre rischia di crollare sul serio, e io non sono un pistolero, neanche lontanamente – scrivo qui sopra senza sapere bene a che cosa serva, a dispetto della mia rabbia sono ancora un topo in gabbia – lasciami andare; sbattimi in prigione – un gioco che è durato troppo, veramente troppo. L’arte dovrebbe essere tutt’altro, e sconvolgere le menti, sconvolgere gli assetti, mettere sottosopra i concetti – qua vedo quasi solo ragionieri e geometri, da troppo troppo tempo – fatemi vedere le stelle, fatemi vedere qualcosa di serio! – di pericoloso, di scomodo, di imprevisto.
‒ Christian Caliandro
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