Disoccupazione e cultura. L’editoriale di Stefano Monti
La riduzione del cuneo fiscale per le Imprese Culturali e Creative potrebbe essere un ottimo incentivo alle occupazioni in questo settore. Stefano Monti riflette su un tema fortemente attuale.
Da qualche giorno è ritornato in auge il discorso, che ciclicamente riappare, sul basso livello di occupazione nel mondo culturale. Discorso tedioso e inutile, che non aggiunge nulla di nuovo al dibattito se non l’aggiornamento di qualche cifra decimale. Perché piuttosto di parlare di tasso di disoccupazione del settore non si affronta il tema del cuneo fiscale?
Che la cultura possa essere, a livello aggregato, un grande fattore di crescita del nostro Paese è ormai accettato anche dai più scettici, ma per farlo è necessario mettere al centro della questione i veri problemi, e non i sintomi.
La cultura è un settore che richiede “manodopera” altamente specializzata, il che, nel mondo concreto delle piccole e medie imprese, si traduce in poche possibilità di scelta: precariato per partita IVA, precariato per self-employment (quelle che ci ostiniamo ancora a chiamare start up) o precariato per contratto.
L’alternativa (che diviene sempre più teorica) è quella di un’occupazione stabile e stabilizzata, con livelli retributivi competitivi anche con gli altri Paesi internazionali. Quest’ipotesi, tuttavia, soltanto in rare occasioni può trovare davvero applicazione e il motivo è semplice: sappiamo tutti che l’Italia è un Paese con bassi consumi culturali, il che equivale a dire con bassa spesa pro capite in cultura. Al contempo, il cuneo fiscale del nostro Paese è ben più alto rispetto alla media degli altri Paesi europei. Da qui, la questione è semplicemente aritmetica: minori entrate e maggiori costi non possono far altro che generare tassi di occupazione minore.
“L’unica strada da intraprendere è ridurre il cuneo fiscale in capo alle Imprese Culturali e Creative”.
Sebbene nella sua concretezza il problema non sia di facile risoluzione, dal punto di vista “strategico” le strade da intraprendere non sono moltissime. Di fronte a questo tipo di situazione, infatti, le possibili variabili su cui si può intervenire sono: aumento del mercato, riduzione della domanda di occupazione o riduzione dei costi generali. In altri termini, data la situazione attuale, per far fronte a questo tipo di strutturazione del mercato o si aumenta la spesa pro capite in cultura (e quindi più entrate) o si bloccano i profili formativi che creino figure professionali in esubero (chiusura dei corsi universitari in archeologia, design, ecc.) o si riduce il cuneo fisale in capo alle imprese facenti parte delle ICC (Imprese Culturali e Creative).
Chiaro è che la prima soluzione rappresenterebbe un optimum ma richiede un periodo medio-lungo di applicazione, mentre la seconda incarna una distopia sia sotto il profilo sociale sia sotto il versante del controllo statale sulla vita dei cittadini.
L’unica strada da intraprendere è quindi, seguendo semplicemente il buon senso, ridurre il cuneo fiscale in capo alle imprese di un settore che lo Stato (almeno nelle sue dichiarazioni) ha definito come strategico per la crescita dell’intera economia domestica.
Abbassare i costi fiscali delle imprese ICC è possibile e sarebbe in linea con quanto avviato dalle recenti riforme in termini di stimolo dell’imprenditoria, che vanno dalla costituzione di forme giuridiche a capitale ridotto (Srls) agli incentivi all’imprenditoria nel settore contenuti in molti “bandi” territoriali e nazionali.
“Che la cultura possa essere, a livello aggregato, un grande fattore di crescita del nostro Paese è ormai accettato anche dai più scettici, ma per farlo è necessario mettere al centro della questione i veri problemi, e non i sintomi”.
Basterebbe, in altri termini, ridurre le spese burocratiche delle forme giuridiche “innovative” (che hanno gli stessi costi di una Srl ma che non permettono di accedere con la stessa facilità al credito bancario), ridurre i costi previdenziali e sociali adattando un criterio proporzionale rispetto ai ricavi, e riducendo, per quelle imprese che hanno meno di tre dipendenti, il livello di tassazione in capo agli amministratori, prevedendo che i maggiori guadagni così ottenuti possano essere investiti in risorse umane entro i cinque anni dalla manovra e detassando gli utili per società che hanno un giro d’affari sotto una certa soglia.
Tutte queste manovre possono apparire, a una prima visione, molto costose per la collettività, ma non è così, anzi, rappresentano, nel medio periodo, un minor costo in termini di spesa pubblica.
Oggi il mercato delle ICC (fatta eccezione per le big company e per altri rari esempi) è costituito da imprese di giovani ragazzi che hanno accettato la sfida dell’imprenditoria e che spesso non pagano il proprio lavoro in attesa di una crescita del loro giro d’affari o che si avvalgono di altri professionisti a partita IVA.
Stiamo, insomma, favorendo un disastro pensionistico enorme, il quale avrà dei costi sociali ben più grandi di una manovra che invece potrebbe favorire la crescita. Data la forte concentrazione dei mercati specifici, ci sono infatti pochissime società che hanno alti livelli di fatturazione, contornate da tantissime società che non fatturano abbastanza. In questo contesto i contributi previdenziali e sociali hanno acquisito, praticamente, le stesse caratteristiche di difficoltà di accesso al credito: diventano disponibili soltanto quando, concretamente, non ti servono più.
Ma di fronte a questo enorme Titanic annunciato, invece di cercare il modo di cambiare la rotta, non facciamo altro che ripeterci, con toni sempre più allarmati, che stiamo andando a sbattere contro un iceberg.
Speriamo che almeno, alcuni di noi, abbiano le scialuppe di salvataggio.
‒ Stefano Monti
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