La Biennale di San Paolo si apre nel lutto. A pochi giorni dall’incendio del Museu Nacional di Rio de Janeiro, il ruolo della cultura nello stato brasiliano si è rivelato marginale, precario. Ma è proprio per questo che la Biennale si riafferma oggi per visitatori, artisti e curatori come un punto di riferimento nella vita culturale di San Paolo e di tutto il Paese. La prima edizione risale al 1951 e cambiò per sempre la storia dell’arte brasiliana: la presenza di Max Bill folgorò una generazione di artisti che dalla purezza formale dell’artista svizzero prese poi le mosse per dare vita ai movimenti concreto e neoconcreto, tra i più rilevanti della storia dell’arte brasiliana. In questi anni poi la Biennale ha conservato un archivio fotografico e progettuale di inestimabile valore, che raccoglie materiale di tutte le Biennali d’arte di San Paolo e lo rende disponibile in formato digitale sul proprio sito. Ma, al di là dell’importanza dell’istituzione, la Biennale è da sempre sinceramente interessata alla diffusione della cultura dell’arte contemporanea: corsi pubblici e gratuiti di preparazione, una comunicazione capillare attraverso pubblicazioni periodiche e l’ingresso gratuito alla mostra sono gli strumenti principali di questa politica. In Brasile la questione sollevata dall’incendio del museo di Rio non è solo una questione di cattiva gestione del patrimonio dello Stato, ma si tratta del ruolo che la cultura occuperà nel Paese da qui ai prossimi anni e che verrà in parte deciso dal risultato delle prossime elezioni, per le quali alcuni candidati si sono già espressi a favore di sostanziali tagli alle politiche culturali. Nonostante questo, la passata edizione della Biennale ha registrato più di 900mila visitatori e le previsioni per quella attuale superano il milione.
UNA CURATELA INUSUALE
A questa situazione conflittuale e contraddittoria la Biennale reagisce prendendo una forma particolare e inedita nella sua storia: nessun tema centrale e un’equipe curatoriale di soli artisti, scelti dal curatore capo Gabriel Pérez-Barreiro. Una struttura orizzontale e attraversata da una vena di anarchia che si sposa bene con la libertà di pensiero e l’inclusività che contraddistinguono il popolo brasiliano e che nei prossimi mesi si scontreranno con le correnti più autoritarie e populiste del Paese. Il titolo di questa edizione, Afinidades Afetivas, è una sintesi tra il titolo del capolavoro di Johann Wolfgang von Goethe, Affinità elettive, e quello della tesi del 1949 di Mario Pedrosa, tra i più importanti critici d’arte brasiliani, Sulla natura affettiva della forma nell’opera d’arte. Già dal titolo si capisce qual è il filo conduttore, ovvero il non-tema, che attraversa tutta l’esposizione: la libertà personale nello sviluppare le proprie connessioni affettive e fascinazioni. I sette artisti invitati da Pérez-Barreiro, infatti, sono stati chiamati a curare altrettante sezioni autonome all’interno della mostra. A loro è stata lasciata completa libertà nella scelta del metodo, delle opere e dell’allestimento, il risultato è quindi un panorama estremamente vario ma non frammentario, nel quale, a dispetto di grandi differenze nelle scelte curatoriali, alcuni temi, come la soggettività della percezione e il legame con le proprie radici, si fanno spontaneamente eco da una sezione all’altra. Oltre a queste sette sezioni autonome ci sono dodici progetti individuali sotto la curatela di Gabriel Pérez-Barreiro, nove dei quali commissionati e tre omaggi postumi.
SEZIONI A TEMA LIBERO
Gli artisti selezionati per la curatela della sezioni collettive sono in maggioranza latinoamericani: Sofia Borges (Brasile), Waltercio Caldas (Brasile), Alejandro Cesarco (Uruguay), Claudia Fontes (Argentina), ma ci sono anche la svedese Mamma Andersson, lo spagnolo Antonio Ballester Moreno e la statunitense Wura-Natasha Ogunji. Gli esiti sono estremamente diversificati: chi lavora principalmente con opere su commissione, come nella sezione Sempre, Nunca (sempre, mai) di Wura-Natasha Ogunji, e chi invece ha scelto una curatela più tradizionale, scegliendo esclusivamente tra opere esistenti, come Caldas con Os Aparecimentos (le apparizioni). In questo panorama variegato prevalgono comunque nomi brasiliani e artiste donne, non nel conto dei nominativi ma come numero di opere. Anche le sezioni curate da Pérez-Barreiro sono notevolmente diverse tra loro. Si va da un quasi dovuto omaggio postumo a Lucia Nogueira in spazi isolati e neutri fino a progetti commissionati nei quali il curatore ha lasciato agli artisti totale libertà di scelta, come quello di Nelson Feliz che comprende degli happening a una scala che abbraccia l’intero continente americano. Altro progetto di grande impatto è quello di Siron Franco che, unico tra gli artisti delle sezioni individuali, espone un corpo di opere precedenti, Césio/Rua 57, nel quale immortala la tragedia causata da un incidente radioattivo a Goiana (Brasile).
LO SPAZIO DELLA BIENNALE
Forse le differenze più interessanti si registrano tra le sezioni che hanno scelto di interagire con la struttura espositiva esistente e quelle che invece hanno scelto di ricreare un ambiente neutro attraverso l’installazione di strutture temporanee. Intraprendere un confronto con la struttura del padiglione Biennale non è facile, per ammissione dello stesso curatore.
Si tratta del progetto di Oscar Niemeyer per esposizioni industriali inaugurato nel 1954. Diventa rapidamente un simbolo della cultura architettonica brasiliana per le sue dimensioni imponenti e l’estrema libertà nel trattamento di elementi strutturali come solette e pilastri, che assumono forme flessuose e organiche. Nel 1957 la Biennale lo sceglie come sua sede e da allora non lo ha mai abbandonato. Tuttavia, le dimensioni estreme, la presenza esclusiva di open space e le condizioni di fortissima illuminazione naturale attraverso le vetrate talvolta rendono difficile l’esposizione di opere d’arte. Diversi artisti/curatori si sono cimentati nel dialogo con questa complessa struttura ottenendo risultati sorprendenti. È il caso della sezione curata da Sofia Borges che, attraverso un percorso di luce soffusa, porta direttamente alla base della tripla altezza centrale dell’edificio, sotto i pilastri sagomati della rampa principale, dove prendono vita happening musicali. Un’altra forma interessante di relazione con lo spazio del padiglione è quella della sezione curata da Claudia Fontes, nella quale l’esigenza di strutture chiuse per la proiezione video convive con un vivace confronto formale con la geometria irregolare della soletta. Anche Ballester Moreno si appropria degli spazi in maniera inusuale, coprendo le vetrate del piano terra, alte più di cinque metri, con gigantesche tele geometriche. Anche in queste sottili attenzioni la linea curatoriale della Biennale conferma il suo interesse verso il dialogo con la sua storia e questa, in un Paese che sta bruciando insieme al suo patrimonio, è una scelta coraggiosa.
‒ Federico Godino
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