Architetti d’Italia. Leonardo Ricci, lo straripante
Stavolta Luigi Prestinenza Puglisi concentra l’attenzione su Leonardo Ricci, architetto carismatico e talentuoso, non sempre compreso.
Di tutti gli architetti italiani della sua generazione, Leonardo Ricci era il più straripante di talento, il più carismatico, il più bello. Un fascino che non risparmiava nessuno. Neanche Bruno Zevi, un uomo difficile agli innamoramenti, che di lui dirà: “Trovavo in lui tutti i miei difetti in una versione luminosa: gestuale, pronto in ogni istante ad abbandonare e rompere, esistenzialista autentico e senza esibizionismi, nelle ore agitate e in quelle di accasciamento, sordo ai problemi della salute e a quelli di una mitica coerenza estetica”.
Non ci potrebbe essere architetto che meglio interpreti gli splendori, i conflitti, le lacerazioni e le contraddizioni degli Anni Sessanta: il bisogno di scardinare il confine tra arte e vita. Dipingeva quadri vibranti, beveva oltre misura e aveva scritto un libro, Anonimo del XX secolo, che, come era prassi in quegli anni, era noiosissimo. L’edizione italiana edita nel 1965 da Il Saggiatore la trovai in un negozio di libri di seconda mano una ventina di anni fa e non sono riuscito ancora a leggerla se non saltando velocemente da una pagina all’altra (esiste una edizione americana di tre anni più vecchia che pare sia stata un best seller, ma può darsi che non sia andata così e la notizia di un successo all’estero sia servita a convincere l’editore italiano a pubblicare un libro ostico e poco commerciale).
UN REDUCE
Leonardo Ricci era nato nel 1918, alla fine di una guerra mondiale e in tempo per il secondo e ancora più cruento conflitto. Come tanti di quella generazione, sapeva di essere un reduce. Da sopravvissuto, capiva sulla propria pelle che il nodo del problema era lo spazio. “Non dovremmo vivere” ‒ scriverà ‒ “nel modo in cui noi viviamo… uno spazio vero è quello che permette la continuità dei singoli atti… non deve mai essere separato, alienato”.
Laureatosi nel 1941 alla facoltà di architettura di Firenze, si rivolse a Giovanni Michelucci, uno dei pochi professori e progettisti che, in una città dominata dal formalismo dell’accademia, sembrava dialogare con la vita. Lavorerà al suo studio sino al 1946. Michelucci, parlando di lui e di Leonardo Savioli, dirà che i due sono stati i suoi migliori discepoli per aver scelto propri e originali percorsi più che per averlo seguito acriticamente. In una lettera scritta in occasione della morte, “mentre le lacrime cadono dagli occhi”, Ricci confesserà che Michelucci è stato per lui un padre.
Irrequieto, curioso e affascinante da far girare la testa, Ricci si reca nelle capitali della cultura: vive per qualche anno nella Parigi dell’esistenzialismo e insegna ad Harvard al MIT, frequentando l’America dell’Espressionismo astratto.
Tornato a Firenze, da professore partecipa ai moti di quegli anni: nel 1966 è ordinario, tra il 1965 e il 1973 dirige l’Istituto d’Urbanistica e riesce a diventare preside. Erano anni in cui lo Stato lasciava liberi alla contestazione i luoghi deputati alla cultura che, trasformati in valvole di sfogo della protesta, diventavano ‒ e lo paghiamo tuttora ‒ terre franche sganciate dalla realtà produttiva e amministrativa del Paese. Grazie a questo scollamento, però, a Firenze si generò un vitale movimento di avanguardie, tra i cui protagonisti compaiono Superstudio e Archizoom. Nel 1979 Ricci abbandonerà il suo posto di professore, lo stesso anno delle dimissioni dall’università di Zevi a Roma, ma, a differenza del secondo, che andò su tutti i giornali, non farà notizia.
PESSIMISMO E UTOPIA
Ricci, come lui stesso confessa, è un pessimista. La vita ‒ diceva ‒ fa schifo, da questa dobbiamo difenderci. La si affronta meglio facendo comunità, riorganizzando le esistenze attraverso spazi che, invece di separarci, ci mettano in condizione di ritrovare i valori della solidarietà, dell’amicizia, della collaborazione. Da qui il progetto utopico di Monterinaldi. Ricci nel 1948 acquista un appezzamento di terreno appena fuori Firenze per costruire un villaggio di case unifamiliari, alcuni atelier di artisti e servizi comuni. Per vivere a contatto con la natura in un complesso senza recinti o steccati. Nessun intento speculativo: i terreni sono ceduti al prezzo di costo a condizione che l’acquirente lasci a Ricci la progettazione. Solo l’architetto, infatti, è in grado di garantire che i valori comunitari prendano forma. La realizzazione migliore è la sua abitazione, costruita a più riprese ‒ lo studio di pittura, per esempio, è del 1964 ‒ in base al principio che una buona opera non è mai ultimata. “La casa” ‒dirà il non meno bravo e amico carissimo Leonardo Savioli ‒ “nasce dalla roccia ed è roccia essa stessa nella parte in cui è a contatto con il terreno… non assume in partenza una posizione astratta con il paesaggio”.
“Prendere forma”: se non si afferra questo nodo concettuale, difficilmente si potrà comprendere l’architettura di Leonardo Ricci e di alcuni dei migliori progettisti degli Anni Sessanta; penso, per esempio, oltre allo stesso Savioli, a Vittorio Giorgini o a Luigi Pellegrin. La forma è infatti la concretizzazione, la sintesi di un processo che garantisce il buon funzionamento di un sistema. Da qui il sospetto per le estetiche accademiche che impongono astratte regole di composizione, ritmi, armonie che non hanno nulla a che vedere con l’unità vivente del risultato. E l’attenzione di questi progettisti per l’architettura organica e per Frank Lloyd Wright, il formatore di spazi che prima e meglio di tutti ha intrapreso e indicato la via. È interessante in proposito notare che Ricci vede di cattivo occhio l’Unità di abitazione di Le Corbusier perché, più che a un organismo organico, rassomiglia a un albergo, un contenitore che si pone fino a un certo punto il problema esistenziale dell’abitare e quindi del rapporto tra gli utenti e tra questi e la natura: uno scambio che non può essere limitato alla visone del panorama da una loggia.
ESPRESSIONISMO E COMUNITÀ
Di religione valdese, anche se non credo osservante, Ricci collabora con la sua comunità alla realizzazione di villaggi destinati all’evangelizzazione, ubicati in zone disastrate del Paese. Il capolavoro è, a mio avviso, il Villaggio Monte degli Ulivi a Riesi, un paese sperduto in provincia di Caltanissetta, dove negli Anni Sessanta l’unica risorsa sono le cave di zolfo. A Riesi Ricci riesce a realizzare grande architettura: quella cioè che sopporta particolari costruttivi poveri e posati approssimativamente, pavimenti da pochi soldi e infissi di alluminio. Perché il valore è altrove: è nella conformazione del luogo, nella forma degli spazi, nel rapporto con gli ulivi dei campi circostanti.
A Riesi apre all’espressionismo, mostrando quanto i due approcci ‒ organico ed espressionista ‒ abbiano aspetti in comune. In particolare l’Ecclesia, che non verrà realizzata, è pensata, in una seconda redazione di progetto, come un guscio informale, una scultura che ricorda le sperimentazioni di Frederick Kiesler e di John Johansen.
Vi è un ultimo periodo di Ricci, quello per il quale, lui che era, con Luigi Pellegrin, il più dotato di tutti, viene sbeffeggiato dai custodi della buona forma. E non solo dagli Sgarbi, che dovunque vedono architettura moderna si sentono in dovere di attaccarla, ma da progettisti di acclarata sensibilità come Cino Zucchi, che un paio di volte lo ha citato come esempio da cui prendere le distanze. È il Ricci del Palazzo di Giustizia di Savona. Sono segni forti, disturbanti, fuori scala, espressionisti. Ma chiunque sia andato a vederli non fa fatica a notare che alla forza della struttura, che rappresenta l’istituzione, corrisponde la massima apertura agli utenti: attraverso spiazzi, promenade architecturale e accessibilità illimitata.
Una volta che questi presupposti vengono a cadere, per esempio per ragioni di sicurezza, l’edificio si trasforma in un bunker inumano e incomprensibile. Perde la sua valenza originaria, la sua grandiosità benevola. È percepito come un oggetto mostruoso a cui sono stati male applicati le regole della composizione, i precetti accademici, facendoci dimenticare che, invece, si trattava di un organismo, una sequenza di spazi urbani per generare incontro, scambio, socializzazione.
ARTE E VITA
È il motivo per il quale costruire tra il 1999 e il 2012, diversi anni dopo la morte, avvenuta nel 1994, il Palazzo di Giustizia di Novoli, è stato un tragico errore. Che, invece di risarcirlo con un’opera postuma, ne ha compromesso la memoria. Non solo per l’esecuzione formalmente scorretta del progetto, che non ha capito le raffinatezze del linguaggio dell’architetto, ma perché incarna un concetto di chiusura e di difesa dell’edificio dal mondo circostante che non ha niente a che vedere con la religione della libertà dell’autore. Un pesce fuor d’acqua nel contesto urbano che, pensato da Leon Krier, risponde ad altre logiche.
Ricci spesso parla di architettura filosofica e ha progettato una casa teorica. Sarebbe però un errore pensare alla filosofia in quanto esercizio astratto. Filosofia non è costruire un universo di concetti, ma riuscire a dare senso alla vita e all’esistenza. È immaginare l’arte come una strada di liberazione. Purtroppo, e lo dimostra la vita stessa di Ricci, si tratta di un progetto perdente. La vita che diventa arte si estetizza. L’arte che diventa vita, a meno che non la si voglia risolvere in semplici formule, richiede un perenne azzerarsi dei suoi linguaggi, impone il grado zero e la frequentazione dell’incertezza. Resta però che questo perenne vagare tra l’arte e la vita è la condizione della nostra contemporaneità. Il nostro destino. Ricci, più di tutti gli architetti del dopoguerra, è riuscito a rappresentarlo.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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