Lezioni di critica #8. Istruzioni per un’arte politicizzata (I)
Questione fra le più dibattute di sempre, il legame tra arte e politica è al centro della nuova “lezione di critica” di Roberto Ago.
L’arte è politica? Affrontare tale annosa questione e, quantomeno in Italia, chiarirla definitivamente, è tutt’uno col depurarla dai due equivoci fondamentali che la rivestono e che uno scambio a distanza tra l’economista Pierluigi Sacco e l’artista Italo Zuffi illustra uno per volta. Riedito da Flash Art in un numero speciale dedicato al cinquantesimo compleanno della rivista, è l’ideale per decostruire entrambi in un colpo solo.
Sintetizzando, Sacco si lamenta di come l’arte italiana non sia sufficientemente politica (e qui Zuffi opportunamente rettifica con “politicizzata”), cosa a suo avviso necessaria affinché si dimostri mordace. Qualche tempo dopo Zuffi replicherà che no, l’arte è sempre un gesto politico, anche se tratta un paesaggio. Quello che vanno a turno differenziando è un’arte politicizzata (Sacco) da una politica per statuto ontologico (Zuffi). Il primo senza riconoscere che il valore di un’opera non sta mai o sta in minima parte nei contenuti che veicola, il secondo senza avvedersi che, se l’uomo è un animale sociale (politikon zoon), tutto quel che fa è un atto politico compreso il suonare un citofono. Si è dunque detta una cosa ora falsa (Sacco), ora pleonastica (Zuffi), occultandosi l’unica verità che conta: l’impegno politico proprio delle arti visive, quantomeno secondo il canone occidentale sviluppatosi a partire dall’Impressionismo, sta tutto e solo nell’arena linguistica e transgenerazionale degli idioletti artistici, che se viene tradita ci consegna un’arte modesta, politicizzata o meno che sia.
Per chiarire ulteriormente la faccenda sarà utile decostruire, oltre ai due falsi credo più in voga, alcune opere d’arte politicizzate e nondimeno mediocri. Poiché sono incentrate tutte sul tema scottante dell’immigrazione, in modo che a disparità di idioletti possa emergere con chiarezza un medesimo errore di fondo, si rende necessaria una digressione di ordine tematico, che in seguito lasceremo sullo sfondo.
SULL’IMMIGRAZIONE
Le tristi cronache di fine estate ci hanno mostrato la scissione schizofrenica che sta dividendo la società italiana e l’Europa intera. A fronte delle ondate migratorie di profughi che, muovendo dall’Africa, vanno interessando il bacino del Mediterraneo, le popolazioni europee appaiono variamente divise tra quanti sottoscrivono le iniziative di esecutivi respingenti e quanti, viceversa, quegli stessi esecutivi vanno aspramente criticando in nome di solidarietà e accoglienza. L’Europa appare scissa tra due esigenze di segno opposto: quella di chi vorrebbe difendere a ogni costo una territorialità che si avverte come espropriata (gli xenofobi, non necessariamente razzisti); e quella di chi vorrebbe onorare a ogni costo un’ospitalità sentita come doverosa e ineludibile, specie nei confronti di profughi in difficoltà (gli ospitali). In entrambi i casi, va da sé, la fallacia sta tutta in quel “a ogni costo” di cui nessuna controparte sembra tenere conto in modo adeguato, ora rivestendo il fenomeno migratorio di inammissibili connotati razzisti, ora illudendosi di poter integrare tutti i disperati che arrivano senza tener conto dei malumori di una parte cospicua della popolazione, erroneamente immaginata in balia di spin doctor che semmai la rappresentano. Aderire acriticamente a uno dei due schieramenti significa sacrificare una porzione di verità distorcendola sulla controparte odiata. Se traduciamo tale sacrificio misconosciuto con un più asettico “tradimento reciproco del campo semantico globale”, il quale afferendo alla totalità della popolazione necessariamente è contraddittorio, la cosa risulterà comprensibile da due differenti punti di vista: uno sociologico e uno semiotico. Se, in aggiunta a questi, facciamo nostro un terzo punto di vista, addirittura “ontologico”, la quaestio risulterà talmente ingarbugliata da poter essere sbrogliata solo da un ideologico taglio netto.
Com’è noto, l’uomo è un ponte sospeso tra il dio e l’animale, una condizione ibrida che le recenti cronache genovesi ci hanno puntualmente rammentato. Se tale dialettica ci è consustanziale, e se informa di sé anche il rapporto tra una solidarietà virtuosa e una territorialità egoistica parimenti in dotazione, allora la conflittualità tra ospitalità e xenofobia è ontologica, oltre che socio-politica. Occorre avere ben chiaro che se la prima è quell’ingrediente che ci fa somiglianti a un dio misericordioso, la seconda costituisce un tratto animale altrettanto ineludibile. L’animale-uomo indulge sia all’una che all’altra a prescindere da orizzonti culturali che pure nel dosaggio hanno un peso, perché tale dialettica poggia su fondamenta biologiche che interessano tanto il dio che l’animale. Immaginare di poter fare a meno di una delle due opzioni è pura utopia, che se perseguita comporta la scissione schizofrenica di cui sopra.
XENOFOBIA E OSPITALITÀ
Senonché cacciatesi reciprocamente dalla porta, xenofobia e ospitalità rientrano dalla finestra sotto forma di demoni temuti e invocati a un tempo, secondo un’alleanza occulta prossima a quella di Dio e Serpente nell’Eden. Detto più chiaramente e anche un po’ scandalosamente, l’ospitale necessita dello xenofobo almeno quanto lo xenofobo dell’ospitale, perché inconsciamente si appaltano quell’opzione indesiderata la cui necessità tendono a rimuovere. Qualora infatti regnasse solo l’opzione xenofoba, si avrebbe una chiusura radicale delle frontiere con perdita di denari e manodopera a basso costo; all’opposto, avremmo un’apertura incontrollata dei flussi migratori con conseguenze ingestibili sul piano della convivenza civile. Ecco allora che la solidarietà espunta dallo xenofobo trova un lasciapassare inopinato nell’ospitale, mentre la violenza esecrata dall’ospitale vede un passaporto inconfessato nello xenofobo, per un argine all’immigrazione che necessariamente è violento.
Ora, se nella ciclotimica Europa il campo semantico, antropologico e ontologico delineato non permarrà in uno stato di equilibrio ragionevolmente in/stabile, il rischio è quello di conflitti civili interni alla popolazione europea, comprensivi naturalmente di ondate persecutorie nei confronti degli immigrati. Almeno, finché i numeri lo consentiranno, perché la tendenza al rimescolamento genetico prevede, sul lungo termine, l’estinzione dei visi pallidi. La cosa non deve turbarci perché è ineluttabile; purché, tuttavia, la staffetta sia impercettibile. Tutto porta a credere che non lo sia, e se gli ospitali si ostineranno a non avvertire la repentinità della sostituzione in atto, ci penseranno gli xenofobi, con ogni probabilità a partire da quelle periferie e ghetti urbani che la gran parte degli ospitali (tra cui le tribù dell’arte) conosce solo indirettamente, oppure occasionalmente. Negare che il continuo arrivo di forestieri (non solo dall’Africa) stia creando un disagio concreto a un numero crescente di europei, stranieri compresi, è distorcere la realtà in nome di una solidarietà oltranzista. Non è affatto un’eventualità remota che annettendo oltre una misura tollerabile (reale o percepita non fa alcuna differenza) gli esuli di mezzo mondo, non si stia predisponendo una loro futura persecuzione della quale, sia pure in misura diversa, sarebbero responsabili tutti e non solo chi la mettesse in pratica, perché si è visto che territorialità e ospitalità sono occultamente complici. Quanto più l’ospitalità tenderà all’iperbole, tanto più il fronte xenofobo integrerà l’opzione sacrificale con gli interessi, quel che è peggio a partire da ragioni ontologicamente fondate.
Questa inconsueta e, per gli ideologi di entrambe le fazioni, immagino irritante premessa si è resa necessaria per venire a capo del vero oggetto di questa duplice lezione. Riprendendo la prossima volta dall’assunto teorico che un’arte engagé non per questo è di qualità, analizzeremo cinque opere mediocri che trattano di immigrazione alla luce di quanto detto. Scopriremo che un’arte politicizzata è valida solo se dice la verità, testimoniando il campo semantico globale senza eludere le contraddizioni, e che ciò è possibile non certo in virtù di un’illustrazione partigiana, ma di un’opera che sappia trasferire sul piano sintattico e semantico una conflittualità a tutto tondo. Altrimenti che esorcismo è?
‒ Roberto Ago
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