A gentle architect. Robert Venturi nel ricordo di Rosa Sessa
A una settimana dalla scomparsa dell’“outsider, il ribelle, l’architetto gentile che ha cambiato la storia dell’architettura”, Rosa Sessa ne tratteggia un intenso ritratto.
Martedì 18 settembre è scomparso nella sua casa a Philadelphia Robert Venturi, architetto americano che, insieme con la collega e moglie Denise Scott Brown, ha cambiato con le sue opere le sorti dell’architettura del Novecento.
Nato il 25 giugno 1925 a Philadelphia da genitori di origini abruzzesi e pugliesi, laureato a Princeton nel 1950, Pritzker Prize nel 1991, Robert Venturi è autore di edifici paradigmatici dell’architettura contemporanea, come la Guild House a Philadelphia, la Venturi House a Chestnut Hill, la Fire Station #4 a Columbus, Ohio. Al successo internazionale hanno contribuito i suoi numerosi scritti, tutti caratterizzati da uno stile vivace e dall’uso frequente di giochi di parole e battute argute. In particolare i suoi primi due libri – Complexity and Contradiction in Architecture del 1966 e Learning from Las Vegas del 1972, quest’ultimo scritto insieme a Denise Scott Brown e Steven Izenour – sono stati tradotti in diciotto lingue, imponendosi come una lettura immancabile per studenti e architetti fin dalla loro uscita.
A GENTLE MANIFESTO
Complexity and Contradiction in Architecture è pubblicato dal MoMA di Philip Johnson e presentato da Vincent Scully come “il più importante scritto sul fare architettura dopo ‘Vers une Architecture di Le Corbusier’”, e già questa entusiastica introduzione sarebbe bastata a garantirne la più ampia diffusione tra il pubblico statunitense. Ma il successo del libro va oltre ogni ipotesi più ottimistica, superando ben presto i confini americani: complice anche il fascino di un testo da condividere in clandestinità, lontano dalle aule accademiche immediatamente restie alle teorie di Venturi, Complexity and Contradiction diventa un riferimento per tutti quei progettisti in cerca di una via d’uscita dall’impasse stilistica degli Anni Sessanta. Il libro, che Venturi definisce “a gentle manifesto”, rappresenta in realtà una critica senza sconti a quel dogmatismo modernista che vuole gli edifici come scatole trasparenti, forme vuote e prive di significato, reiterazione stilistica senza ormai alcun legame con quegli impulsi rivoluzionari dell’architettura moderna che Venturi tanto apprezza. Gli attacchi sono diretti, anche se sempre ammorbiditi dalla sua intelligente ironia: il tanto irriverente quanto irresistibile “Less is a bore” fa il verso al motto di Mies van der Rohe “Less is more”. Nessun altro, oltre Venturi, si è azzardato a osare tanto in un momento in cui Mies è un anziano e venerato architetto in America, un vero e proprio monumento vivente dell’eroica stagione del movimento moderno tedesco. In Complexity and Contradiction Venturi invita gli architetti a tornare a guardare ai grandi esempi del passato per reinterpretare lezioni ancora valide per il progetto contemporaneo. Le pagine dense del libro sono ricche di riflessioni inedite su edifici europei – italiani, soprattutto – e americani appartenenti a ogni epoca storica. Le foto si mescolano tra loro in una composizione vorticosa e a prima vista spiazzante: Villa Savoye di Le Corbusier accanto al Palazzo Propaganda Fide di Bernini, la Sagrestia Nuova di Michelangelo nella stessa pagina di Three Flags di Jasper Johns, Times Square in coppia con Piazza San Marco. Dettagli o foto di contesto che solo l’occhio allenato di un architetto colto potrà interpretare fino in fondo: “L’architettura è troppo complessa per essere affrontata con ignoranza accuratamente preservata”, scrive Venturi nella prefazione.
LAS VEGAS E IL POST MODERN
Nel 1966 Denise Scott Brown, la bella e brillante urbanista e fotografa originaria del Sud Africa conosciuta alla University of Pennsylvania, lo invita a visitare con lei la città di Las Vegas, ovvero la città dei casinò, delle cappelle kitsch per i matrimoni lampo e degli hotel pacchiani. Eppure, secondo Denise, è proprio a Las Vegas che bisogna guardare per riconoscere e analizzare gli incontrollabili fenomeni urbani che stanno interessando in quel momento lo sviluppo delle città americane. Da questo viaggio inizia la ricerca che porterà nel 1972 alla pubblicazione di Learning from Las Vegas, ancora oggi uno dei libri più letti e citati al mondo. Learning from Las Vegas rappresenta un passaggio epocale per l’architettura: se Complexity and Contradiction invitava a guardare al contesto urbano e agli esempi storici, Learning from Las Vegas spinge la provocazione contro il Moderno a un livello ancora più alto. Gli autori affermano che un architetto deve saper osservare i simboli spontanei della città contemporanea – le insegne pubblicitarie, i neon delle pompe di benzina, le facciate posticce dei mall commerciali lungo Main Street –, perché un bravo architetto è in grado di imparare da Roma e da Las Vegas, dalla mappa del Nolli così come dai parcheggi del Cesar Palace. Per la storia dell’architettura questo è il punto di non ritorno, il passaggio epocale dalla modernità alla post modernità.
Se Venturi e Scott Brown rappresentano indubitabilmente i precursori della stagione del Post Modern, il loro rapporto con questo eclettico e sfaccettato movimento non potrebbe essere più problematico. “Mi sono sentito più a mio agio con chi mi criticava che con quelli che erano d’accordo con me”, scrive Venturi già nella prefazione alla seconda edizione di Complexity and Contradiction nel 1977. Lo stesso atteggiamento ambivalente lo si ritrova nei modi in cui la critica ha descritto il lavoro di Venturi e Scott Brown, pronta a lodare il genio creativo e la forza liberatrice delle opere del duo di Philadelphia così come a demolirne le teorie e denigrarne con ferocia i progetti, additandoli come i responsabili dei risultati meno felici e “parodistici” del Post Modernismo.
I PROGETTI ARCHITETTONICI
Rapporti sempre buoni, invece, Venturi e Scott Brown li hanno avuti con i committenti, via via più numerosi e importanti nel corso degli anni. Lo studio Venturi, Rauch & Scott Brown (dal 1989 Venturi Scott Brown & Associates) dalla fine degli Anni Sessanta fino agli Anni Dieci del Duemila ha lavorato con successo con centinaia di clienti, sia privati sia pubblici, e in particolar modo con istituzioni culturali e accademiche. Non si possono non citare l’espansione dell’Allen Memorial Art Museum a Oberlin del 1976, la nuova ala della National Gallery di Londra del 1991, il Seattle Art Museum del 1991, la sede del Dipartimento regionale della Haute-Garonne a Tolosa del 1999. Se si considera, poi, che gli attacchi più feroci ai due architetti sono sempre provenuti dall’ambiente accademico, sembra quasi ironico l’enorme contributo di Venturi e Scott Brown all’espansione dei campus universitari americani. La storiografia ricorda solo i progetti per Princeton, in particolare la Gordon Wu Hall del 1983, ma da una costa all’altra degli Stati Uniti sono numerosi le scuole, i dipartimenti, i laboratori e le caffetterie universitarie progettate dallo studio di Philadelphia. E sono proprio i progetti per la University of Pennsylvania, il campus della loro città, che mostrano con innegabile chiarezza l’essenza del modo di fare architettura di Venturi e Scott Brown: i temi sono il dialogo costante con la città, l’attenzione al contesto stratificato di uno dei campus più antichi d’America, la cura nel progetto degli spazi aperti a servizio sia degli studenti sia dei cittadini.
LA BIBLIOTECA FISHER
Nel campus della University of Pennsylvania Venturi e Scott Brown si trovano a lavorare accanto a capolavori architettonici assoluti che vanno dagli edifici in Collegiate Gothic di fine Ottocento ai laboratori Richards di Louis Kahn del 1965. A partire dagli Anni Ottanta per la UPenn si occupano sia di costruzioni ex novo che di restauri di edifici esistenti, e non è difficile indovinare quale sia stato il progetto più emozionante su cui la coppia abbia lavorato. Nel 1991, nel centenario della sua inaugurazione, la biblioteca Fisher progettata da Frank Furness riapre agli studenti dopo un meticoloso restauro a cura di Venturi e Scott Brown. È in questa biblioteca che i due si sono conosciuti nel 1960 durante un acceso dibattito accademico in cui si discuteva della demolizione o meno proprio dello stesso edificio, ed è nell’aula al secondo piano dedicata alle lezioni di Louis Kahn che entrambi hanno mosso i primi passi nel mondo accademico, guidati dal maestro e mentore Kahn e affiancati da colleghi di profonda sensibilità e talento come Romaldo Giurgola. È proprio in quella stessa biblioteca, così importante per la sua vita, che il prossimo ottobre – un mese che in Pennsylvania è punteggiato da foglie di acero rosse come l’arenaria e la terracotta dell’edificio – la comunità di Philadelphia si riunirà per salutare per l’ultima volta Robert Venturi: l’outsider, il ribelle, l’architetto gentile che ha cambiato la storia dell’architettura.
NOTA CONCLUSIVA, INEVITABILMENTE BIOGRAFICA
All’annuncio ufficiale della morte di Robert Venturi, mercoledì 19 settembre, sono raggiunta, in modo del tutto inaspettato, da messaggi di affetto e parole gentili provenienti da amici che vivono in ogni parte del mondo. I colleghi di dottorato mi scrivono che hanno imparato ad apprezzare l’opera di Venturi durante le nostre presentazioni periodiche davanti al collegio; il bibliotecario della Fisher Library mi comunica che proprio lì sarà celebrata la funzione in ricordo di Bob, perché la biblioteca di Furness era “il suo edificio preferito di Philadelphia”; altri amici mi scrivono semplicemente “ho letto la notizia e mi sei venuta in mente”. Intanto ho già scritto a Jim, il figlio di Bob e Denise. “My heart is broken” è tutto quello che sono riuscita a digitare.
Scrivo questo ricordo mentre ascolto Beethoven, perché è Beethoven che suonava nel salotto della loro casa a Philadelphia il giorno in cui ho conosciuto per la prima volta Bob e Denise. Era il giorno del Ringraziamento del 2016 ed ero stata invitata a pranzo da Jim e da Anita Naughton, scrittrice inglese conosciuta in un convegno a Roma. Entrando nella loro casa, per primo mi è venuto incontro Aalto – sì, proprio con due “a” – il cane di famiglia che mi ha accolto con l’usuale allegria dei cocker. Attraversando l’ingresso ho sentito la voce di Denise che dal piano superiore ci comunicava, senza mostrarsi: “Sto scrivendo un articolo. Scendo appena ho finito!”. Sono stata fatta accomodare in salotto quando, finalmente, Robert Venturi è comparso sulla porta. In quel momento – che ricordo come sospeso nel tempo, illuminato da un basso ma ancora caldo sole novembrino – l’argomento dei miei studi si è trasformato in un uomo anziano ma di bella presenza, ancora alto, ben vestito, profumato di fresco, che mi guardava con curiosità e che aspettava ritto sulla porta che io lo raggiungessi e che mi presentassi. Mi sono avvicinata e lui ha stretto energicamente la mia mano, con un’intensità che non mi aspettavo. Ero stata avvertita che Bob, all’epoca novantunenne, era ormai molto fragile, ma l’uomo che era di fronte a me mostrava un’eleganza e una dignità intatta, e nei suoi occhi azzurri riconoscevo la stessa fermezza e lo stesso guizzo ironico delle foto della sua giovinezza che stavo in quel periodo visionando in archivio.
Ci siamo seduti accanto, lui sulla sua poltrona, io su una sedia imbottita, e parlando lentamente, per non stancarlo o annoiarlo, gli ho spiegato il motivo della mia visita e l’argomento della mia tesi. Gli ho raccontato che avevo letto tutte le sue lettere inviate dall’Italia e che amavo molto il modo non banale in cui aveva descritto Napoli, la mia città. Mentre ricostruivo per lui la traiettoria del mio lavoro, non ho potuto fare a meno di notare che il primo motivo di interesse che Bob trovava in me non era la mia tesi, quanto piuttosto il fatto che fossi italiana. Mi ha chiesto di Roma, mi ha sorriso quando gli ho citato Piazza Navona e quando – con la nostra “r” vibrante, irripetibile per ogni straniero – ho pronunciato il nome di Bernini, di Borromini, di Brasini. Quello a cui Bob era interessato era ascoltare la mia voce, una voce che gli ricordava l’Italia, la prima passeggiata sulle sponde del Tevere l’8 agosto 1948, il biennio trascorso all’Accademia Americana di Roma negli Anni Cinquanta, e chissà quali altre avventure, una voce che lo rendeva nostalgico e felice insieme. Venturi mi comunicava la sua gioia prendendo in giro il mio accento, facendomi il verso e poi ridendo dello scherzo, abbozzando talvolta, con quel sorriso timido e beffardo, un breve dialogo in italiano con me. “Thank you for coming”, mi ha detto quella prima volta. “Thank you for coming” è stata anche l’ultima cosa che mi ha detto quando mi ha salutato al termine della mia visita lo scorso aprile. Qualcuno dice che bisogna sempre porre una distanza critica tra la propria vita e l’oggetto della propria ricerca, e questo certamente è vero. Ma non posso non riconoscere l’incredibile privilegio che ho avuto nel frequentare così da vicino uno dei più geniali e complessi protagonisti del nostro tempo. E quando a lezione, o ai convegni, presento Robert Venturi e Denise Scott Brown come i protagonisti ribelli del Novecento, mi ritrovo sempre ad abbassare leggermente la testa, e a sorridere impercettibilmente, perché oltre alla grande storia penso che Bob e Denise hanno cambiato anche me, e per sempre, dando una direzione al mio lavoro e alla mia vita.
‒ Rosa Sessa
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