Lezioni di critica #9. Istruzioni per un’arte politicizzata (II)
Riprende in mano i fili dell’indagine attorno al tema dell’“arte politicizzata” la nona lezione di critica di Roberto Ago. Analizzando cinque opere che hanno mancato il loro obiettivo.
Stabilito che sia gli xenofobi che gli ospitali si spartiscono i due estremi ideologici di un orizzonte onto-semio-antropologico scisso, contraddittorio e conflittuale, possiamo analizzare cinque opere d’arte incentrate sul tema dell’immigrazione variamente mediocri, e tali perché manifestano un’adesione unilaterale ipocrita al polo dell’ospitalità (non sono invece a conoscenza di opere rappresentative del fronte xenofobo, che per fortuna diserta le belle arti.) Non ci limiteremo tuttavia a evidenziarne i limiti sia politici che estetici, ma ne proporremo una versione rettificata in entrambe le direzioni.
DALLA TEORIA AL LABORATORIO SPERIMENTALE
A ben guardare, mentono credendo di dire la verità e dicono la verità mentendo il manifesto della regata Barcolana di Marina Abramović (2018); l’installazione con i gommoni appesi sulle facciate di Palazzo Strozzi di Ai Weiwei (Reframe, 2016); l’installazione in progress con i nomi delle vittime del Mediterraneo di Banu Cennetoğlu (The List, 2007-2018); l’azione rivolta alla nave Diciotti da Maria Domenica Rapicavoli, Luca Preti e Katiuscia Pompili (Morse Action, 2018); la vignetta di Charlie Hebdo sul disastro di Genova, contemplante un immigrato (2018). Vediamo perché e come intervenire.
La fallacia retorica del manifesto di Marina Abramović, di cui ancora in conferenza stampa a Palazzo Stozzi nessuno deve averla informata, è già stata ampiamente analizzata in una lezione dedicata al corretto giudizio di un’icona. Come si è visto, un inopinato “slogan a senso alternato” ha finito per veicolare una gaffe involontaria. Si poteva evitare? Certo, ammettendo semplicemente la verità che “non siamo tutti sulla stessa barca”. Un manifesto sincero ci avrebbe guadagnato sotto ogni punto di vista: la Barcolana sarebbe apparsa come quella regata esclusiva che meritatamente è, indicando al contempo, e con ammirevole coraggio, l’esistenza degli esclusi, in particolare dei naufraghi incidentalmente evocati; l’afflato universalistico sarebbe rimasto lo stesso, ma su uno sfondo di realismo, ridestando quelle coscienze che l’utopia invece annebbia; il tutto avrebbe assunto connotati di impegno umanitario privo di ipocrisie, costringendo a un reset interpretativo di cosa significhi un’arte politicizzata valida. Davvero non male per la “semplice” aggiunta di un segno negativo, che se in un contesto ludico sembra all’improvviso stridere, è proprio per la nostra disabitudine ad abitare le contraddizioni.
Sulla carta, l’idea di Ai Weiwei di andare all’arrembaggio di Palazzo Stozzi su una flotta di gommoni era più che promettente, peccato che la realizzazione abbia finito per sabotare l’impresa. Come non rilevare che quei gonfiabili appena partoriti da un’industria nautica fanno gridare vendetta ai loro gemelli semi-sgonfi recuperati qua e là al largo delle nostre coste? Il motivo di un capolavoro mancato è evidente: una flotta eterogenea e rabberciata, già carica di disperati e che avesse sfidato le intemperie fino a giungere a palazzo, ci avrebbe restituito la metafora potente di una sovranità arroccata ma obbligata all’accoglienza, convocando, oltre alle cronache contemporanee, gli assedi della Storia, l’arrembaggio del popolo sovrano alla corona, la lotta di classe. Al ritmo di scialuppe monocrome, fulgide e immacolate, lo spettacolo è stato invece quello di un artista occidentalizzato che fa il Robin Hood in compagnia dei prìncipi. Senonché un sistema dell’arte che assume i drammi del mondo in modo strumentale dice comunque la verità. A leggerla per quello che è e non per quello che si vorrebbe fosse, si ottiene il ritratto sincero di un’opera che ha fallito l’obiettivo su due fronti.
DA CENNETOĞLU A CHARLIE HEBDO
Così è per l’installazione più nota (sic) di Banu Cennetoğlu, consistente nella pubblicazione progressivamente aggiornata dei nomi delle vittime del Mediterraneo. Danneggiata due volte dai vandali all’ultima edizione della Biennale di Liverpool, due volte ha visto l’artista e la direzione non comprendere come in tal modo risultasse più efficace (perché più autentica). Ma non abbastanza. Che xenofobi e ospitali si odino a vicenda è un’ovvietà, così un manifesto strappato. Tornando all’originale integro, un omaggio alle vittime a suon di convocazioni a festival e biennali appare ancora una volta strumentale. Che fare? Sincerità. Se le anonime vittime del Mediterraneo non smettono di essere tali una volta esposte pubblicamente, perché non affidare i loro nomi e cognomi a un algoritmo che continuamente ne rimescoli l’identità, imitando l’azione livellatrice del mare e della perdita di memoria? Così sì che ne uscirebbe un’opera artisticamente valida, la quale ora come ora sta avendo successo in virtù di un’operazione concettualmente mediocre, oltre che ipocrita, a cui un sistema dell’arte incompetente mostra di concedere credito.
Identico difetto, con l’aggravante di un contatto ravvicinato interessato, presenta l’azione rivolta alla nave Diciotti dagli artisti Maria Domenica Rapicavoli e Luca Preti, coadiuvati dalla curatrice Katiuscia Pompili. Vale la pena di riportarne le parole: “[…] Per due giorni, mattina e sera, siamo stati davanti alla Diciotti senza poter comunicare con i migranti sequestrati sulla nave. […] Ad un certo punto abbiamo scelto di utilizzare il linguaggio MORSE. […] Luca ha trovato un’app che traduce le parole in fasci di luce e Maria Domenica ha costruito un telaio per amplificare il segnale che abbiamo mandato con lo smartphone. […] Il problema a quel punto era di tipo comunicativo, chi avrebbe raccolto i messaggi di speranza, supporto e accoglienza che lanciavamo? […] Ma il valore simbolico che abbiamo dato all’azione è più importante della comprensione delle parole. […] Abbiamo pensato che inserire ‘Morse Action’ all’interno di un progetto in progress fosse del tutto naturale, volevamo fare una mostra sviluppando questo concept”. Si può anche concedere loro la buonafede, a patto di integrarla con una dose cospicua di ingenuità, mentre mai come in questo caso criticare un esito artistico è tutt’uno col correggere una postura etica. Senonché un progetto “in-audito” non consente rettifiche.
La feroce satira di Charlie Hebdo il più delle volte è gratuita senza innescare riflessioni degne di nota, tanto che anche la vignetta dedicata al disastro di Genova conferma tale giudizio generale. Scomodando un’immigrazione fuori tema rispetto a ben altre magagne, si è persa l’occasione di alcune vignette irresistibili: quella di un originale snellito e visitato dal celebre logo-Benetton, come fosse una reclame graffiante di Oliviero Toscani; quella di un ponte Morandi arrangiato attraverso la catasta sottostante di macerie, camion, automobili e vittime, sulla quale il traffico prosegue indisturbato; quella (a volerceli mettere per forza) di profughi che osservando il crollo dal porto di Genova, tirano un sospiro di sollievo per il negato approdo.
DECOSTRUIRE UN FALSO MITO
A parte il caso inemendabile di Morse Action, le rettifiche effettuate ci riconsegnano delle opere politicizzate valide con conseguente godimento estetico. Esse dimostrano come il tradimento del campo semantico globale sia tutt’uno con delle prassi artistiche maldestre, le quali ritrovano verità e qualità nel momento stesso in cui reintegrano il rimosso. A tale forma di sacrificio l’arte contemporanea mostra di dovere molti dei suoi immeritati successi, se un inedito fenomeno di “neocolonialismo delle disgrazie altrui” va intrattenendo i rappresentanti delle classi agiate occidentalizzate, materializzandosi sulle pareti di biennali, musei e gallerie. Esso è dissimulato dall’etichetta cognitiva e comportamentale dell’impegno pseudo-partecipato. Un’arte al servizio di minoranze e contropoteri è naturalmente un’ingenuità condita di immancabili ipocrisie, le quali si disinnescano solo a condizione di dire la verità ottenendone in cambio la possibilità di pattern estetici efficaci. Così non è quasi mai, e il risultato è un’arte politicizzata mediocre incompresa dai suoi stessi artefici ed estimatori. Sovente accompagnata da idiozie quali “l’artista decostruisce i meccanismi del potere (neoliberistico, finanziario, coloniale, ecc.)”, essa è il tipico prodotto di patrizi annoiati che amano pensarsi integrati a un mondo di sofferenze e privazioni, nemmeno in vista della celebre catarsi aristotelica, quanto di opportunistici prelievi effettuati a distanza di sicurezza. La soluzione è una sola e sempre la stessa: o l’arena resta quella linguistica, per un’autentica azione politica nei confronti di noi stessi e mai di chi resta escluso in ogni caso, o l’arte moschettiera continuerà a essere quel passatempo elitario che volentieri è spacciato per critica istituzionale e impegno politico.
‒ Roberto Ago
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