Cuore e intelletto. Intervista a Fabio Novembre
Scelto da Foodation, holding che opera nel settore del food retail multibrand, per sviluppare i nuovi store della catena di ristorazione Briscola-Pizza Society in Italia e in Europa, l’architetto Fabio Novembre si racconta in questa intervista a tutto campo.
Fabio Novembre è energia pura. Nato a Lecce nel 1966 e architetto progettista dal 1992, vive e lavora a Milano; qui ha aperto la sua casa-studio. Se è il “designer italiano più amato del momento” lo deve alla forza espressiva delle sue opere, dalle realizzazioni di interni di ristoranti fino agli oggetti di arredo. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare i suoi lavori recenti, tra cui i nuovi store – con sedi in Duomo e Porta Nuova, a Milano ‒ per una catena di ristorazione.
Intervistare una figura poliedrica come Fabio Novembre non è cosa semplice. Per raccontare il tuo lavoro fino a oggi, procederemo per macro-temi. Partendo dal tuo ultimo progetto, inizierei con “convivialità”. Sei stato scelto per la realizzazione dei nuovi store della catena di ristorazione Briscola-Pizza Society, una pizzeria con un format molto speciale che tu hai saputo tradurre al meglio…
Il concept di Briscola si basa sulla convivialità, sulla condivisione della pizza: la pizza è un momento social. Già questo è un input e un punto di partenza interessante. Inoltre Briscola è un nome utile, un dato iniziale, perché è un gioco di carte, un’occasione di socialità. La briscola è un gioco per uomini anziani, ma anche per bambini; d’estate le mie figlie giocano sempre con le carte, è una buona occasione per sedersi a un tavolo e parlare. Oltre a questo, l’iconografia del gioco è affascinante, appartiene all’epica cavalleresca. Ne sono sempre stato colpito: pensa che da ragazzo collezionavo immagini di santi piuttosto che figurine di calciatori!
Gli interni sono molto diversi dallo stereotipo di pizzeria italiana.
Certo, abbiamo cercato di uscire dall’immagine folcloristica della pizzeria per fare qualcosa di contemporaneo, figlio di una generazione nuova, diversa, più “clubbing”. L’approccio al pizzaiolo sporco di farina non rispecchia i tempi, è fondamentale testimoniare la contemporaneità. Per chi compie un gesto artistico, è necessario vivere il proprio tempo e non in passati desiderati. Ogni tratto di vita è unico e speciale, non a caso io mi definisco sempre designer del presente, non del passato né del futuro. Hic et nunc, qui e adesso.
Allora il progetto IoNoi, nel nostro tempo, che valore assume?
IoNoi è l’assoluta consapevolezza che nessuna azione è indipendente dalla precedente: è comunque impattante sulle successive. Perché noi siamo anelli di una grande catena: è la catena ad assumere un senso, non l’anello. Ho sempre immaginato la vita come una specie di corsa a staffetta: tu ricevi il testimone da chi viene prima di te, fai un tratto il più veloce che puoi, poi cedi a chi verrà dopo. Il presente non esiste senza passato, certo, ma neanche senza futuro. Noi non possiamo oggi fregare il mondo che dobbiamo lasciare ai nostri figli. Noi non siamo un anello unico.
Cambiando tema: interdisciplinarità. Fabio Novembre è una figura contemporanea che testimonia l’abbandono degli iper specialismi lasciando spazio alle invasioni di campo tra le discipline. Ti sei definito poco fa designer, ma cosa intendi per designer?
Designer vuol dire progettista, non uno che fa i mobiletti: io sono un progettista ed è la definizione più completa. Dentro racchiude il proiettarsi e il cercare di immaginare mondi nuovi. Questo include tutto: architettura, design, i “mobiletti”, l’arte, tutto. Che poi non è che non esistano gli iper specialismi, esistono diversi livelli di coscienza. Non dobbiamo limitarci a dire “Quello è bravissimo a fare alberghi!” oppure “Quello a disegnare i rotoli di carta igienica!”: io sono uno che propone ai suoi colleghi, che hanno altri studi, di scambiarsi i ruoli per cambiare il punto di vista e avere una ventata di aria fresca. Bisogna cambiare i punti di vista e questa è una delle lezioni fondamentali che ho insegnato alle mie figlie già con la scelta dei loro nomi, Verde e Celeste. Di cognome fanno Novembre, novembre nella cultura occidentale è un mese grigio, piovoso, freddo; noi volevamo che fosse un trionfo di natura, di cieli azzurri. Per averlo ci basta cambiare punto di vista: andare dove è nata la loro madre, nell’altro emisfero, e vedere che lì è primavera. Scegliere il punto di vista è interdisciplinarità, il provare a sviluppare il proprio e metterlo in discussione, cambiarlo.
Quindi siamo tutti progettisti?
Siamo tutti progettisti, consapevoli e non consapevoli. Un giorno il direttore dell’IIT di Genova cercava di spiegarmi cosa è un Personal Computer e mi diceva: “Fabio, è una serie di storie in linea. Ci sono miliardi di possibilità e di on/off.” In fondo la complessità di un computer è una complessità semplice, non raggiungerà mai quella del sistema nervoso del cervello umano, è un’infinita serie di possibilità ma positive o negative, on oppure off. Questo per dirti che la nostra vita ‒ in quel positivo negativo, on off, sinistra destra ‒ è come un grande computer, solo più complesso. Noi siamo molto meglio di quello che pensiamo. La nostra parte animale, che ragiona di pancia, va accettata e controllata, ma c’è una parte di noi che si può alzare all’infinito. Noi la dobbiamo coltivare, è quella su cui dobbiamo investire. Investi su altro, non sulla pancia, investi su qualcosa a lungo termine: cuore e intelletto.
Ti propongo un ultimo tema: il senso di appartenenza a un luogo. Spesso, nei tuoi progetti, rivendichi le tue origini leccesi, come per l’ultima collaborazione con Kartell, i centrotavola Trulli (2018). Eppure, in un certo senso, le rinneghi pure.
Sono andato via da Lecce a neanche 18 anni e quindi mi sono sempre sentito una specie di esule volontario. Ho sempre considerato la mia terra come qualcosa che non mi potevo permettere, un fallimento (l’evoluzione era altrove). Ho sempre negato in qualche maniera la provenienza. Crescendo fai pace con te stesso e ti rendi conto che invece è tutto quello ti ha formato: nonostante tu abbia cambiato tante scarpe, la polvere dei luoghi che hai calpestato è rimasta sempre dentro. Hai presente la storia dei mocassini degli indiani d’America? Facevano un buco nella suola, perché volevano che il terreno fosse sempre toccato dal piede per senso di appartenenza. Questa è una cosa poeticissima. Quella roba è mia: la pietra leccese monocromatica che brilla al tramonto e tutto quell’iper decorativismo quasi piatto di cui è composto.
Perché abbiamo questa tendenza a rinnegare il luogo di nascita?
Perché vogliamo essere snob, internazionali, ma poi ci accorgiamo che la nostra particolarità è proprio venire da lì, è un ingrediente che ci rende unici. Prepari gli ingredienti della ricetta che vuoi diventare: alcuni sono dati, alcuni li puoi mettere tu. È il Masterchef applicato alla vita. Va bene così, va bene tutto. Anzi no, citando il titolo del libro di Lorenzo Cherubini e Franco Bolelli, Viva tutto!.
‒ Bianca Felicori
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