Architetti d’Italia. Sergio Musmeci, il genio gentile
Luigi Prestinenza Puglisi analizza la breve ma densa carriera di Sergio Musmeci. Architetto geniale in anticipo sui tempi.
La mattina del 5 marzo del 1981 un infermiere entra nella stanza per staccare a Sergio Musmeci i tubi, oramai inutili, dell’ossigeno. Manfredi Nicoletti ricorda: l’infermiere raccolse qualche oggetto e rapido e silenzioso andò via; “così con distacco, si chiudeva la vita di un genio”. Doveva ancora compiere 55 anni.
Che Musmeci fosse un genio lo sapevano tutti, amici e avversari. Bruno Zevi avevo sostenuto addirittura che Musmeci superava per poesia e apertura culturale Pierluigi Nervi e Riccardo Morandi, i due ingegneri italiani in quel momento più conosciuti nel panorama internazionale, per le molte opere realizzate con successo anche all’estero da una industria che in quel momento non era seconda a nessuna. E lo sapeva l’accademia che non aveva, con grande scandalo, voluto dargli la cattedra, per favorire, come sempre, qualcuno più inquadrato e spalleggiato. Lasciandolo, a mo’ di contentino, insegnare gratuitamente Ponti e grandi strutture, un corso frequentato da pochi appassionati. Alle cui lezioni faceva ogni tanto capolino Luigi Pellegrin e che si completava con visite allo studio dove mostrava gli esperimenti condotti con le bolle di sapone misto a glicerina e con modelli in neoprene testati, alla maniera di Gaudí, invertendo le forze di compressione con quelle di trazione, in modo da visualizzare l’andamento naturale delle forze e approntare strutture che minimizzassero l’impiego di materia resistente.
Musmeci aveva mostrato un’intelligenza precoce e fuori dal comune sin da ragazzo. La scuola la aveva fatta di corsa e, nonostante la guerra, si era laureato in ingegneria a 22 anni. Aveva preso poi una laurea in ingegneria aeronautica. Era appassionato di astronomia, di musica, d’arte. Non c’era campo dello scibile che non lo interessasse. Era una bella persona, gentile e aperta al mondo. E frequentava un ambiente culturale portentoso, di cui oggi si sono perse le tracce, per colpa di una critica distratta e ideologicamente sciagurata. Era il circolo che riuniva Francesco Palpacelli, Luigi Pellegrin, Manfredi Nicoletti, Bruno Zevi e altri. Personaggi tutti curiosi, immensamente creativi, di intelligenza non comune, di ambizioni infinite. Tra tutti Musmeci era il più mite, scientificamente il più dotato. Aveva una moglie che condivideva con lui le fatiche dello studio, Zenaide Zanini, e quattro figli con i quali giocava ai soldatini, scegliendo per lui i peggiori per lasciare loro il gusto della vittoria. Di notte amava andare per mare orientandosi con strumenti da lui costruiti oppure, dall’osservatorio che si era costruito in cima alla sua villa di Formello, osservava e scrutava il cielo per carpirne le leggi. Che gli mostravano quanto il cosmo fosse distante dal tranquillizzante equilibrio che immaginavano altri. Era, invece, disegnato e ritmato da discontinuità, da crisi, da dissonanze. Vicino a quanto mostrava l’arte contemporanea. Eppure retto da principi essenziali, sempre intelligenti. Tra le forme una in particolare lo appassionava: la ragnatela. Raccontava come una buona struttura sa adoperare i vuoti e le geometrie e l’inutilità di tanta materia con la quale inzeppiamo le strutture così credendole, a torto, più resistenti.
FORMA E TENSIONI
Come può il progettista avvicinarsi a quanto la natura fa di meglio? È l’interrogativo al quale Musmeci cerca di rispondere lungo la sua purtroppo troppo breve esistenza. Un interrogativo che avrebbe permesso a lui, ingegnere, di dare un contributo alle ricerche dei suoi amici, architetti, di fede organica (un giorno bisognerà scrivere la storia troppo breve dell’architettura organica in Italia a cominciare dall’APAO).
Semplice: evitandogli di inventare le forme, invertendo il processo di calcolo. Gli ingegneri, prima di Musmeci, partivano da una forma. Che costituiva il dato di partenza da verificare. Data questa, le incognite da calcolare sarebbero state le tensioni. Se le tensioni trovate fossero state ritenute accettabili, la forma lo sarebbe stata, viceversa la si sarebbe dovuta dimensionare in modo diverso o cambiarla con un’altra più efficiente.
Musmeci inverte il processo. A essere imposte sono le tensioni, mentre la forma diventa la incognita da ricavare.
Esattamente come avrebbe fatto Dio o, se a lui non vogliamo credere, la Natura. Che difatti tende al minimo strutturale e cioè alla efficienza.
Il minimo di materia, quindi, non è un esercizio di pura eleganza, ma è assumersi la responsabilità di perseguire il disegno del cosmo. Un imperativo soprattutto etico.
Musmeci ci ha lasciato numerose pagine di scritti che, come nota Manfredi Nicoletti, sono difficili da decifrare anche ai matematici. D’altra parte si racconta che, con un semplice regolo, riusciva a compiere prodigi.
LE OPERE
Per fortuna ci ha lasciato opere e progetti che in forma più accessibile ci raccontano di lui.
La prima è il ponte sul Basento. Una struttura equicompressa studiata con le bolle di sapone e materiali elastici sperimentati a trazione invece che a compressione. Il risultato è un oggetto organico, un animale preistorico, una forma della natura. Una struttura che si regge, come un uovo, per forma e non richiede più di trenta centimetri di spessore di calcestruzzo, quando i ponti hanno travi alte metri. Ha resistito benissimo negli anni, il progetto è del 1967 e fu completato nel 1975), terremoti compresi. Per costruirlo, visto che andava in deroga ai calcoli prescritti dalle norme tecniche, si dovette realizzare e testare un modello di due campate in scala 1:10 in microcalcestruzzo.
La seconda opera, la sua più importante, non è stata purtroppo realizzata. È il progetto per il ponte sullo stretto di Messina. Fu uno dei cinque premiati al concorso del 1970. L’unico che ebbe l’ardire di proporre una campata unica. Tre infatti previdero di fondare i piloni in mare, per evitare la scommessa di una campata di circa 3 chilometri mai sperimentata in precedenza. Il quarto propose un tunnel sottomarino. Credo che nessuno abbia mai avuto il genio di ideare un ponte cosi intelligente ed elegante. Musmeci pensa infatti a una catenaria da pilone a pilone. Ma questa ha i pendini che sorreggono il ponte solo per la parte centrale per circa 2 chilometri. Il resto funziona come se fosse un ponte strallato, un po’ come se la mano del progettista avesse inserito all’interno del ponte due piloni virtuali. L’impalcato lavora infine come una tecnostruttura. Detto a parole è difficilissimo, ma, vista l’immagine, non si può non restare colpiti dalla naturalezza e dall’eleganza dell’ipotesi. Un organismo talmente ben strutturato che anche un bambino capirebbe che la soluzione non potrebbe essere altrimenti.
Inutile dire che sia il ponte sul Basento che il progetto di ponte sullo Stretto ci fanno pensare alla banalità con la quale oggi si cerca di affrontare il problema della ricostruzione del viadotto sul Polcevera, opera crollata di Riccardo Morandi. Dove il problema sembra non essere più l’eleganza e l’intelligenza della struttura ma della forma brillantemente studiata dell’involucro, che però nasconde una ossatura elementare e strutturalmente inefficiente, un gioco di curve che al più hanno un semplice intento metaforico.
La terza opera Musmeci la progetta con Manfredi Nicoletti. È un grattacielo elicoidale composto da tre corpi che, torcendosi, si sostengono a vicenda e che, grazie alla forma curva, sono tanto aerodinamici da resistere con facilità alle forti tensioni indotte dal vento.
Osservate la data: 1968. E notate quanto le forme siano attuali. Di più di quelle oggi realizzate con opere mirabolanti e, a volte, estetizzanti dagli studi Foster, Hadid, Calatrava.
Nella storia, si sa, chi arriva troppo presto ha sempre torto. Saranno altri che prenderanno il merito. A meno che, come ci auspichiamo, non si costruisca una controstoria che dia spazio a chi è stato ingiustamente trascurato. In questa controstoria Sergio Musmeci, il genio gentile, avrà un ruolo di primo piano. Insieme ai suoi compagni di strada i quali, come lui, si erano messi in testa che in Italia, invece che rimpiangere a ogni piè sospinto la storia, la si fosse potuta costruire, guardando alla natura ma dal solo punto di vista poetico, scientifico e tecnologico da cui è possibile farlo senza arretramenti.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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