Se pubblico e privato funzionassero davvero. L’editoriale di Stefano Monti
Una riflessione sul ruolo dei soggetti pubblici e privati in Italia. E sulla necessità di rivedere i meccanismi della spesa pubblica.
Sembra quasi un inizio da favola. C’era una volta uno Stato in cui i soggetti pubblici e privati andavano perfettamente d’accordo: il soggetto pubblico comprendeva quali potessero essere i modi più corretti per acquistare i prodotti da offrire ai propri cittadini, il soggetto privato garantiva, attraverso le offerte, la crescita della propria società e un futuro ai propri dipendenti.
Nel Paese di Buonsensolandia – così potrebbe chiamarsi – la corruzione era malvista da tutti e tutti la condannavano subito. In fondo, riconoscere casi di appalti truccati era facile: i controlli venivano fatti non solo dalla pubblica amministrazione, ma anche da altre imprese e da cittadini.
Per fortuna, però, viviamo in un posto diverso. Viviamo in Italia. Dove possiamo ancora migliorare qualcosa. Forse anche troppo. In Italia, per far fronte a un utilizzo “poco avveduto” della spesa pubblica, è stato necessario avviare una serie di controlli che hanno fatto vertiginosamente aumentare il costo delle gare e degli appalti negli ultimi decenni.
Poi, a un certo punto, la svolta: ecco arrivata Consip, la Centrale per gli acquisti che ha sviluppato un sistema di aggiudicazione delle gare molto attento, volto a ridurre quanto più possibile (ovviamente casi anomali sono e saranno sempre all’ordine del giorno) procedure e assegnazioni non perfettamente cristalline.
Ma anche questa, in fondo, è una soluzione costosa.
Certo, stando ai dati, i costi per gli acquisti da parte della pubblica amministrazione si sono notevolmente ridotti. Esemplare il caso del confronto per l’acquisto da parte di una PA di un personal computer che, acquistato in convenzione Consip, mostrava un costo di 310,21 euro, mentre fuori convenzione (in media) 415,25 euro.
“Forse sarebbe il caso di ripensare clausole e contratti, per fare in modo che il ‘risparmio’ di spesa pubblica sugli acquisti non vada ad aumentare i ‘consumi’ di spesa pubblica in ‘assistenza’”.
Se questa “spending review” può piacere tanto a chi mette in primo piano il rapporto tra debito e spesa pubblica e le direttive europee, dispiace invece a chi vede in un processo di questo tipo una spinta a un oligopolio di fatto, in cui solo le imprese che possono acquistare a prezzi più competitivi riescono a partecipare e vincere a questo tipo di economia.
Potrebbe essere interessante allora valutare, in termini aggregati, quali siano stati i “costi” di questo discount del settore pubblico, che da un lato dovrà pur sempre ridurre gli sprechi ma, forse, garantendo anche l’accesso a imprese di più piccole dimensioni.
Perché se è vero (e lo è) che il tessuto produttivo italiano è per la quasi totalità formato da piccole e medie imprese, e se è allo stesso tempo vero (e lo è) che per vincere è necessario possedere un potere d’acquisto notevole, allora sembra chiaro che chi partecipa (e vince) alle gare Consip sarà sempre una minoranza consolidata di imprese.
Lo stesso meccanismo dell’Unione Europea, che alla fine beneficia con i suoi progetti a finanziamento diretto quasi sempre le stesse università. Lo stesso meccanismo centralizzante di Amazon.
A ben vedere, la questione è strutturale. È, di fatto, un circolo che potrebbe essere virtuoso o vizioso a seconda di come lo si gestisce. Riuscendo a garantire un tetto minimo di entrata a piccole e medie imprese, soprattutto per l’acquisto da parte della PA di “servizi” e non soltanto di “prodotti”, si allargherebbe notevolmente lo scenario competitivo che, invece, nella realtà, si riduce alla presenza di grandi attori nazionali.
Forse sarebbe il caso di ripensare clausole e contratti, per fare in modo che il “risparmio” di spesa pubblica sugli acquisti non vada ad aumentare i “consumi” di spesa pubblica in “assistenza” (disoccupazione, crediti inesigibili dai contribuenti ecc.).
Se da un lato, infatti, la decentralizzazione che prima imperava costava allo Stato troppe risorse (c’è chi dice fossero 36mila le stazioni appaltanti in Italia), la centralizzazione e l’approccio “al risparmio” potrebbe generare maggiori costi sociali di quanti ne faccia risparmiare.
“In Italia, per far fronte a un utilizzo ‘poco avveduto’ della spesa pubblica è stato necessario avviare una serie di controlli che hanno fatto aumentare il costo delle gare e degli appalti vertiginosamente negli ultimi decenni”.
Nessuno ha messo in luce questo aspetto, mentre tutti analizzano come, in realtà, la Consip avrebbe potuto far risparmiare ancora di più.
Il problema è sempre quello della visione parcellizzata della “cosa pubblica”. Manca uno scenario globale, una prospettiva che sappia comprendere cosa (a livello aggregato) genera maggiori benefici alla comunità. Basterebbe semplicemente “tracciare” tutti i costi della PA, capire quanto si spende per cosa.
Per intenderci, la gestione degli acquisti è paragonabile al “padrone di casa” che non accende i termosifoni per ridurre al minimo i consumi del gas, anche se poi, per riscaldarsi, accende stufe elettriche che fanno lievitare i consumi dell’elettricità (spendendo, in modo aggregato, di più).
Fatto un primo passo verso la razionalizzazione, insomma, facciamone un altro verso la razionalità.
‒ Stefano Monti
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