L’eterno presente dell’Italia. L’editoriale di Dario Nepoti
Il fondatore della Scuola Politica Gibel riflette sulla situazione italiana. Bloccato in una sorta di eterno presente, il Belpaese è in balia di una violenza crescente e di un annichilimento che spegne la volontà di cambiare lo status quo.
Un’Italia che sopporta e non s’indigna, o che s’indigna senza poi riuscire a dar seguito e voce al proprio sentimento, è un Paese fermo. Come un orologio che, logorato dal tempo e mancante ormai di alcuni ingranaggi, comincia a girare a vuoto segnando sempre lo stesso orario, l’Italia sembra essere caduta nella morsa dell’eterno presente. Uscire da questa morsa e ricominciare a progettare futuro implica avere la consapevolezza di dove siamo oggi e soprattutto la conoscenza delle nuove regole del gioco.
Volgendo lo sguardo a una delle molteplici cause che hanno portato a questo straniamento dalla società che sembra quasi una fase di Entortung, ovvero una fase di disorientamento spaziale, c’è una data che bisogna ritornare a considerare: 9 ottobre 1989. La caduta del muro di Berlino è l’inizio della società globale e della folle corsa a governarla che vede il progressivo ritiro dalla scena della politica così come la conoscevamo prima, la quale lascia il passo a nuovi mostri scorrazzanti liberi dentro l’arena internazionale. Tra i molti fenomeni, difatti, la “pace globale” civilizza le tecnologie militari, permettendo alle “new corp” di riversare in pochi anni tutti quei congegni tecnologici inventati e sperimentati dai due blocchi durante la Guerra Fredda: Internet, la miniaturizzazione tecnologica, il GPS, gli aeroplani di nuova generazione (droni in testa). Questo cambio inatteso dell’infrastruttura tecnologica avvia un’esponenziale e inedita accelerazione delle relazioni e degli scambi, commerciali ma non solo, permette di esplorare nuove dimensioni e generare nuove possibilità, catapultando il mondo in quegli scenari così ben intuiti da alcuni registi e artisti negli anni precedenti.
“Eppure, oggi in Italia tutti noi abbiamo di fronte una grande opportunità: possiamo scegliere se cogliere il cambiamento prodotto dall’era globale per guidarlo nuovamente o continuare a seguire uno standard che giorno dopo giorno ci sta livellando”.
Sono passati quasi trent’anni e ci ritroviamo in un mondo nel quale i concetti di spazio e tempo sono radicalmente cambiati. Viviamo in una società iperveloce e connessa; apparentemente senza limiti fra Stati, dove le democrazie sono sempre di più e le guerre sempre di meno, i Pil crescono come le grandi città. Eppure, se guardata con attenzione, la società lamenta anche un’altra faccia, come una ferita mal curata che presenta i primi sintomi di infezione ma che da fuori, con sguardo approssimato, non sono visibili. Vengono eretti nuovi muri e barriere economiche, le diseguaglianze crescono senza fine e i nuovi leviatani non sono normati, siamo spettatori di nuove guerre e soprattutto della neutralizzazione del grande reticolo delle leggi internazionali per la convivenza pacifica tra i popoli. Ci stiamo abituando a qualcosa che fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile: la violenza come parte del nostro scenario quotidiano. Per questo a volte la sensazione è che ci stiamo affacciando all’irrompere di nuove forme di populismo e sovranismo, non a caso le spese in armamenti hanno invertito il trend, così il sentimento di sicurezza vacilla sempre di più.
E la politica dov’è? Protagonista incontrastata della scena internazionale del XX secolo, la politica non è riuscita a cogliere il significato del crollo del muro di Berlino e le sue multiformi conseguenze, rimanendone travolta. Disorientata all’interno del nuovo sistema, la politica sposa la strategia della “quiescenza conservativa”: esistere senza esserci.
“Questo cambio inatteso dell’infrastruttura tecnologica avvia un’esponenziale e inedita accelerazione delle relazioni e degli scambi, commerciali ma non solo”.
Eppure, oggi in Italia tutti noi abbiamo di fronte una grande opportunità: possiamo scegliere se cogliere il cambiamento prodotto dall’era globale per guidarlo nuovamente o continuare a seguire uno standard che giorno dopo giorno ci sta livellando. Il mutamento ci obbliga a ripensare le regole stesse dell’impianto democratico, gli spazi dell’istruzione, della ricerca e dell’agricoltura, della produzione e dello scambio tra i popoli. Un giovanissimo Tadao Ando nei suoi appunti scriveva: “Userò la mia professione per rompere lo status quo”. Stabiliamo allora qual è lo status quo per poter produrre quel salto in avanti che ognuno di noi sta auspicando. Ripartiamo dai fondamenti, dalla formazione, dalle pratiche, rimettendo in gioco il senso della scuola e il come si apprende. Noi, oggi, di che tipo di formazione abbiamo necessità per poter cogliere appieno le nuove possibilità?
Arte e architettura, custodi dei processi creativi e spaziali, possono oggi indicare parte di quel cammino, dare lo slancio e fornire nuovi immaginari capaci di cogliere le nuove fratture caratterizzanti la società. Nel pensare l’azione come gesto artistico, Duchamp fu grande: con quella mossa si produsse un nuovo campo d’azione fino ad allora inesplorato, una mossa che pose le basi dell’arte contemporanea. In lui vi era la percezione del limite delle arti e la necessità di cambiare lo standard; lo fece con assoluta consapevolezza, con coraggio e immaginazione. A noi, in Italia, serve una “mossa alla Duchamp” per riattivare di nuovo il tempo.
‒ Dario Nepoti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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