Achille Castiglioni 100 anni dopo. L’omaggio di Patricia Urquiola a Milano
Nella grande retrospettiva allestita alla Triennale di Milano per il centenario dalla nascita, il più poliedrico tra i padri nobili del design italiano si racconta con la sua voce, ma soprattutto con quella della designer sua allieva. Un dialogo per concetti, o cluster, tra due personalità progettuali ben definite, dalla “i” di ironia alla “v” di vuoto.
Achille Castiglioni e Patricia Urquiola. Il maestro ‒ geniale, ironico, asistematico ‒ e l’allieva ‒ al suo fianco come studentessa al Politecnico di Milano fino alla laurea, nel 1989, e poi oltre, come assistente ‒, oggi designer affermata, tra le più influenti e ricercate dall’industria degli ultimi due decenni. La grande retrospettiva che la Triennale dedica a uno dei padri nobili del design italiano è in realtà un dialogo tra due personalità progettuali.
“È la voce di Achille ad accompagnare il visitatore, io ho fatto ben poco”, ha spiegato la designer spagnola, ma milanese d’adozione, che ha curato la mostra insieme a Federica Sala. In realtà, la sua mano è evidente fin dall’ingresso del percorso espositivo, dove una grande mappa concettuale illustra i venti nuclei interconnessi, o cluster o microcosmi, intorno ai quali si raccolgono i progetti selezionati. Questo schema riprende un concetto caro a Patricia Urquiola, quello del rizoma. Alla figura “impossibile” e insieme modernissima presa in prestito da Deleuze e Guattari, coacervo di connessioni che si estendono in qualunque direzione in maniera multidimensionale, la designer ha dedicato numerosi interventi pubblici e persino una lectio al Festival della Mente di Sarzana, nel 2017. Come in un rizoma, la navigazione tra i vari nodi può avvenire senza un preciso percorso, avventurandosi da un microcosmo all’altro seguendo rimandi concettuali e suggestioni. Molti degli oggetti esposti ‒ prodotti finiti, prototipi, schizzi preparatori, fotografie ‒ si sarebbero potuti trovare in aree diverse, e le collocazioni alternative sono indicate in maniera esplicita nelle sale e sul catalogo edito da Electa. La scelta di un ordine non cronologico permette anche di apprezzare, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’attualità dell’opera di Castiglioni, sorprendente se pensiamo che il padre di Arco e Parentesi, morto nel 2002, ha potuto vedere soltanto l’alba del nuovo millennio.
I CLUSTER
A ognuno dei cluster corrisponde un aspetto rilevante della personalità, privata e progettuale, di Achille Castiglioni. La milanesità (L’è un gran Milan), con la città che è ben più di uno sfondo o la sede dello studio condiviso con i fratelli Livio e Pier Giacomo (quest’ultimo, in particolare, relegato un po’ ingiustamente ai margini della mostra), ma una tela sulla quale lavorare con interventi architettonici importanti (la Torre e le sale espositive della Permanente, la Camera di Commercio, ma anche la leggendaria birreria Splügen Bräu, collocata altrove, avrebbe avuto il suo posto in questa sezione), un luogo dove tessere relazioni feconde con il sistema design e una fonte di ispirazione continua. Il tabagismo (Fumo), con i rari oggetti disegnati per i fumatori in una lunga carriera, dal posacenere Servofumo della celebre serie dei Servi alla boccia con spirale creata per Bacci a Bologna e ripresa per Alessi negli Anni Ottanta, oltre alla sigaretta come eterna appendice dell’uomo, dell’architetto e del professore. L’ironia (Playfulness), il gusto del paradosso e della decontestualizzazione creativa che gli consentono di posare uno sguardo lieve e non giudicante sulle cose, portandolo per esempio a realizzare un cappello con la forma degli stampi da budino. La leggendaria accumulazione di oggetti comuni, “figli di nessuno” progettualmente parlando, ma portatori di soluzioni efficaci a problemi quotidiani (Forse non tutti sanno che), trasportati in capienti borse nere ‒ anch’esse parte dell’esposizione ‒ e mostrati agli studenti come fonte di ispirazione. Dall’osservazione delle piccole cose di tutti i giorni possono nascere capolavori di essenzialità e funzionalità come l’interruttore rompitratta disegnato nel 1968 a quattro mani con Pier Giacomo, mentre ciò che è già stato disegnato (Redesigning) può essere rielaborato e migliorato. I tavoli che portano i nomi di grandi pittori, Bramante e Leonardo (ideati per Zanotta rispettivamente nel 1950 e nel 1969) poggiano su una rivisitazione del classico cavalletto d’artista.
SEMPLICITÀ E SINTESI
La ricerca della semplicità, per lo meno apparente, e della corrispondenza tra regola tecnologica e aspetto formale (Keep it simple) con Parentesi, lampada formata dal minimo vitale di elementi che si muove scorrendo su un cavetto d’acciaio. Un lavoro che procede per sintesi e per sottrazione, e che non ha paura di usare lo spazio bianco o nudo, per esempio negli allestimenti, per scandire il ritmo degli ambienti e le pause nei percorsi (Vuoto). Il recupero e l’assemblaggio imprevedibile di componenti e utensili, spostando l’attenzione dalla creazione di una nuova forma alla ricerca di usi inediti per forme ordinarie, in un modo che ricorda il ready made di Duchamp o Man Ray ma se ne discosta perché non si risolve in un semplice gesto artistico, avendo come scopo la creazione di un prodotto, con un suo valore d’uso (Ready making). Mezzadro, per esempio, rappresenta un intelligente détournement del sedile da trattore ma è soprattutto una seduta, mentre il sellino di cuoio da bicicletta, montato su un’asta d’acciaio in equilibrio su una semisfera in fusione di ghisa di Sella, ha un vantaggio ergonomico, permettendo a chi lo usa di dondolarsi, per esempio durante una telefonata.
‒ Giulia Marani
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