Neocolonialismo estetico. Manifesta secondo Marcello Faletra
Una riflessione sulla biennale che quest’anno ha fatto tappa a Palermo. Sollevando dubbi su un approccio forzatamente globalizzato.
Come un etnorama globale, Palermo – per via di Manifesta 12 e dei suoi effetti collaterali – sta godendo di grande visibilità. Dopo tre mesi, fra queste due realtà è nato un doppio legame: da un lato la città si trova sotto l’ingiunzione di apparire come serbatoio di differenze, dall’altro deve essere una macchina per l’inclusione. Elogio della pluralità e “approcci inclusivi” affiancati da “un programma educativo molto intenso e site specific” (Hedwig Fijen) mirano a fare dell’alterità di Palermo un’integrità culturale, nello spirito estetico del multiculturalismo. Un tratto che accomuna molte opere è quello di “inserirsi” nella città: alcuni artisti hanno la velleità di trovare soluzioni a questioni di cui la politica è stata incapace sin dall’unità d’Italia. È la presunzione di opere che “dialogano” con il luogo per sollecitare un mutamento, attingendo a stereotipi riverniciati con la formula del site specific. Ci sono strade che non hanno ancora le fogne (Danisinni) ma per questi artisti diventa l’occasione per guardare dalla finestra i drammi sociali, come fanno quei turisti che guardano il mondo con un clic. Qui l’arte di sopravvivere non ha nulla da apprendere dagli “artisti” per decreto di Manifesta e dei suoi “eventi collaterali”. La globalizzazione della cultura o l’estetica colonialista arriva al punto di “comunicare” la propria azione “sensibile” con dépliant dove la lingua è perentoriamente l’inglese. In luoghi dove a stento si parla la neolingua italiana promossa dal gergo televisivo, l’uso dell’inglese costituisce un rapporto autoritario.
“Le derive storiche della città diventano un repertorio di forme di consumo che si sommano al repertorio di formule estetiche, creando una sfera trascendente della cultura che a fine anno scomparirà come fumo al vento“.
La non-contemporaneità di queste vite escluse dalla storia per alcuni mesi è forzatamente inclusa nella “contemporaneità” onnivora dell’arte. Quando la parola ‘arte’ è calata dall’alto, con i suoi sacerdoti che dispensano “soluzioni creative” di fronte a problemi strutturali, è più vicina alla truffa che all’arte. “L’opera d’arte”, osserva Boris Groys, “oggi non manifesta l’arte, la promette”. Come Manifesta, che sembra una messinscena planetaria: un caleidoscopio di banalità, furbate e qualche idea forte. La sua ideologia sta nell’arte a domicilio, che coniuga assistenzialismo estetico e miseria, per un turismo intellettuale che assapora il tratto esotico di un luogo nel quale si possono ammirare, come in un set cinematografico, i palazzi bombardati della Seconda guerra mondiale. Le derive storiche della città diventano un repertorio di forme di consumo che si sommano al repertorio di formule estetiche, creando una sfera trascendente della cultura che a fine anno scomparirà come fumo al vento. E in un’epoca dove stentano a sopravvivere le credenze religiose, figuriamoci quelle artistiche nate in nome della “coesistenza”, ma funzionali al capitale globale, come Manifesta 12.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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