Ovidio, l’arte e la poesia a Roma
La poesia di Ovidio, dopo duemila anni, ci parla ancora allo stesso modo? La mostra alle Scuderie del Quirinale di Roma tenta di dare una risposta.
Publio Ovidio Nasone (Sulmona, 43 a.C. – Tomi, 17 d.C.) è oggi conosciuto anzitutto per la sua opera più nota, il celebre poema Le Metamorfosi che, sin dal suo apparire, fu una fonte eletta di ispirazione per diverse generazioni di artisti. In mostra, per documentare questa fortuna, circa duecentocinquanta opere di diverse tipologie: dalle sculture dell’antichità classica ai neon contemporanei di Joseph Kosuth; dagli affreschi pompeiani ai dipinti di Botticelli e Tintoretto; e, ancora, vasi greci, glittica e manoscritti medievali.
Il poema di Ovidio è concepito come una sequenza di miti e storie che esaltano sentimenti forti come la passione o il dolore. I personaggi sono accomunati da un destino che, a causa di quei sentimenti, li trasformerà in qualcosa di nuovo. La narrazione è una sorta di “romanzo dell’umanità”, una sintesi della cultura greco-romana, una vasta enciclopedia di favole e miti che parte dalla creazione della terra per spingersi fino alla “Glorificazione di Augusto”; l’imperatore che, nell’8 d. C., mandò il poeta latino in esilio a Tomi (oggi la romena Costanza), sulle rive del Mar Nero.
CONFRONTI TRA EPOCHE
La mostra, attraverso raffronti di opere che trattano lo stessa tema ovidiano, permette di conoscere qualcosa in più circa l’atteggiamento che gli artisti hanno avuto nel rapportarsi al testo: così possiamo osservare certe significative sfumature d’interpretazione che ognuno di essi, figlio del proprio tempo e della propria sensibilità, ha lasciato nella creazione dell’opera.
L’ultima sala ha come tema la storia di Ganimede, il giovane che Giove, trasformatosi in aquila, rapì dalla terra per farne il coppiere degli dei. Il testo di Ovidio è molto esplicito in merito a questo rapimento, al quale dà una giustificazione apertamente amorosa, come è ben evidente osservando una coeva scultura romana del I secolo (Uffizi) posta al centro dello spazio.
Nel Medioevo, quando il poema di Ovidio (e lo stile di vita pagano) fu censurato con edizioni “moralizzate” e “cristianizzate”, il significato che prevalse fu quello che vedeva Ganimede (che Giove aveva condotto nell’Olimpo) come figurazione dell’anima che riesce a elevarsi spiritualmente verso Dio; altre volte, nientemeno, la vicenda del giovane rapito dall’aquila fu paragonata a quella di Cristo e la sua ascensione. Contemporaneamente si affermò un’altra interpretazione allegorica di quel mito, ridotto a simbolo araldico; così anche l’aquila che, come si vede nella Medaglia di Paolo III qui esposta, altro non simboleggia che un’insegna imperiale.
DAL RINASCIMENTO A OGGI
La visione rinascimentale del tema, recuperando le dottrine neoplatoniche, insistette sul significato già noto di elevazione dell’anima; è il caso di un noto disegno di Michelangelo del 1532, realizzato per Tommaso de’ Cavalieri, qui ripreso in un grande dipinto di Alessandro Allori, un elemento decorativo per un letto o una panca con Gli amori di Giove (Bargello); anche se l’atteggiamento non vagamente erotico di Ganimede (il suo rapporto con l’aquila che lo ha appena rapito) può veicolare anche altri messaggi, non necessariamente spirituali.
Un “contegno” diverso ha invece il Ganimede in bronzo attribuito a Benvenuto Cellini (se non ad altri artisti fiorentini) del Bargello. In questa scultura il giovane, a cavalcioni sul dorso dell’aquila che lo porterà nell’Empireo, sembra avere un totale controllo di quello che gli sta accadendo, partecipando attivamente e consapevolmente all’azione; forse il sintomo della coscienza dell’individuo del tempo che diventava sempre più autonoma davanti alla religione, la storia e la natura.
Grazie alla presentazione di opere che esplicitano le diverse interpretazioni del mito e dei suoi contenuti, siamo in grado di intuire alcuni atteggiamenti esegetici e morali in qualche modo specchio dell’epoca che rappresentano. E i versi di Ovidio ci accompagnano in questo viaggio.
‒ Calogero Pirrera
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