Digital kitsch. L’editoriale di Lorenzo Taiuti
Il digitale è quasi sempre kitsch, sostiene Lorenzo Taiuti. E propone qualche idea per uscire dall’impasse.
Non siamo stanchi del digital kitsch? Ready Player One di Steven Spielberg non è la rappresentazione creativa dei videogame virtuali ma la sua illustrazione didattica. Per un regista così importante è un grosso errore. Nella sua semplicità fu molto più affascinante Tron. Negli Anni Sessanta le prime sperimentazioni d’immagine con il computer portarono alcuni artisti (fra cui James Whitney) a rappresentare forme digitali in movimento. Cosa non nuova nelle arti visive, a partire dalle avanguardie storiche con l’uso del cinema. Ma essendo le avanguardie “iconoclaste”, il corpo umano e la realtà circostante erano parziali o trasformati in segni grafici. Il potere rappresentativo digitale degli Anni Ottanta era molto più forte e si è gridato alla realtà virtuale alle prime rappresentazioni stilizzate e molto cartoon di volti e figure umane. La loro “virtualità” era indiscutibile ma la loro realtà era discutibile. Le interazioni e il quadro complessivo creatosi hanno reso credibile l’ossimoro “realtà virtuale”. La scelta dell’area digitale è consistita nell’assumere queste prime raffigurazioni (in genere prodotte nel campo dei videogame) come uno stile pop che presentava un segno iconografico nuovo, alla maniera della Pop Art degli Anni Sessanta con l’adozione dei fumetti e delle grafiche pubblicitarie. La grafica dei videogame si è fatta sempre più “realistica”, spesso però senza acquisire un equivalente valore espressivo. Una volta rimessa in questione la definizione di ‘realtà virtuale’, molte delle passate animazioni virtual perdono senso.
“È necessario superare i limiti di un linguaggio che cresce in modo quantitativo, continuando però a vedere il kitsch come valore”.
I lugubri paesaggi dei giochi di ruolo, l’ipercolorato infantilismo di farfalle e fiori presenti in tante situazioni virtuali immersive non superano a livello grafico le stilizzazioni del fumetto o dell’animazione passate e presenti, anzi. È necessario superare i limiti di un linguaggio che cresce in modo quantitativo, continuando però a vedere il kitsch come valore. Il cartaceo arriva invece ai risultati espressivi delle graphic novel e il cinema sfrutta i propri costosi mezzi per una maggiore approssimazione, come in Avatar. Il pop-kitsch linguistico digitale non avrà perso i suoi contenuti innovativi-sovversivi? Non è forse arrivato il momento di andare al di là degli occhioni degli anime giapponesi? Mentre la “recitazione” straordinaria del Gollum del Signore degli Anelli resta (per ora) un obiettivo irraggiungibile senza grandi mezzi, è la storia stessa del cinema e delle arti visive, nonché la crescita delle forme di “rilevazione” digitale della realtà, a fornire indicazioni per un diverso approccio fra visione e realizzazione. Il problema è aperto. Nel frattempo l’iconografia digitale va rinnovata attraverso un diverso rapporto con le necessità della “rappresentazione”, virtuale o meno.
‒ Lorenzo Taiuti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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