Le sublimi ceramiche di un collezionista distratto. Al MAO di Torino
Si tratta per lo più di eleganti pezzi monocromi databili tra il X e il XV secolo dominati allora dalle dinastie Song e Yuan. In tutto ventisei manufatti esemplificativi delle produzioni delle maggiori fornaci del periodo, che per intenditori e collezionisti rappresentano il massimo grado di raffinatezza mai raggiunto dall’arte ceramica in Cina. Il MAO di Torino, che non include nella sua collezione permanente ceramiche di questo periodo, ora le espone in una mostra intitolata “Sfumature di terra”.
Le ceramiche in mostra, a partire dal 31 ottobre, al MAO di Torino provengono da una raccolta frutto di peregrinazioni ventennali nel Sud-est asiatico da parte dell’artista e grande viaggiatore Maurizio Vetrugno. Proprio a lui abbiamo chiesto di raccontarle. Risultato? Un fiume di parole scaturite da un’erudizione così vasta da sembrare a tratti incomprensibile.
Quale è stato l’innesco di questa mostra?
Di sicuro il caso. Più precisamente una mia distrazione: lo scambio di uno scatolone per un altro. Nel 2015 sono stato chiamato da Sarah Cosulich ad Artissima ad allestire The curated lounge e mi sono inventato una Opium Den. In quella occasione ho messo insieme pezzi antichi e pezzi nuovi ispirandomi alle stanze orientaliste, a quelle chinoiserie che piacevano moltissimo negli Anni Venti del secolo scorso. Tra i pezzi esposti c’era anche qualche ceramica proveniente dalla mia collezione.
Sì, ma che c’entra Artissima con l’esposizione attuale?
C’entra. Al MAO in quella occasione avevo chiesto di prestarmi delle sculture raffiguranti il buddha Avalokiteśvara, durante una serie di incontri mi è stato chiesto di portare qualche oggetto originale che stavo progettando di mettere in mostra. Ho pensato a delle porcellane bianche e blu che pure posseggo, ma ho sbagliato scatolone e ho mostrato loro delle tazze monocrome, queste davvero importati per capire cosa sta alle spalle della cultura della cerimonia del tè. A quel punto Marco Guglielminotti Trivel, che è il conservatore del Mao per l’Asia orientale, mi ha chiesto se possedevo altri pezzi di epoca Song. Da qui l’idea della esposizione attuale.
Quella al MAO però non è una mostra d’artista, giusto?
Infatti. In questo caso si tratta di un’esposizione sostanzialmente didattica. Ci sono voluti tre anni, ma ora eccoci qua. Tutti i pezzi esposti provengono dalle fornaci in funzione durante la dinastia Song (960-1279), la prima ad avviare un processo di produzione specifico per la corte, spesso fatto di numeri limitati dello stesso modello; un sistema che poi procederà anche nelle dinastie seguenti, la Yuan (1271-1368) e nel primo secolo della restaurazione dei Ming (1368-1644).
Ma perché ti sei inventato questa collezione?
Avevo preso casa a Bali. Arriva la stagione delle piogge, che fai? Ho iniziato a frequentare botteghe di brocante che mi proponevano ogni genere di ceramica raccontandomi che erano di “epoca Ming”, che in realtà non significa niente. Mi sono incuriosito e ho cercato di capire meglio: sono rimasto catturato dal fatto che le ceramiche del periodo classico cinese (Song) sono completamente scevre da decorazioni. Si tratta di un gusto totalmente contemporaneo. Quelle esposte al MAO sono ceramiche poco note in occidente, dove la produzione di questi oggetti arriva nel XVI secolo destinata proprio alle case patrizie europee, per lo più nei colori bianco e blu sempre abbinati.
Ma la loro fortuna in ambito artistico appartiene a un periodo più tardo
Verso la fine del XIX secolo è stato l’interessamento nato in Giappone per l’arte cinese ad influenzare l’Arts and Crafts di William Morris, che tra le altre cose promuoveva la produzione di pezzi unici in contrasto con le produzioni industriali. Il discorso è poi continuato con Bernard Leach, il promotore del British Studio Pottery; fu lui a designare le porcellane dell’epoca Song come standard ideale della produzione ceramica di tutti i tempi. Lo ha fatto attraverso alcune mostre importanti (tra cui quella del 1910 al Burlington Fine Arts Club di Londra), introducendo un gusto cinese sino allora completamente sconosciuto in Occidente.
Mi pare che anche Roger Fry e Herbert Read appartengano a questo manipolo di precursori…
Esattamente. Critici d’arte campioni della diffusione del Modernismo come Roger Fry ed Herbert Read presero come esempio le porcellane Song, il cui pregio consisteva nella purezza della forma, nella sottigliezza del colore e nella tattilità della texture, contrapponendole alla ridondanza della decorazione. Ne fecero paradigmi validi anche per altre discipline estetiche. Herbert Read nel suo testo Art and Industry (1934) contrapponeva tra le altre cose le qualità anti-intellettuali delle produzioni cinesi di epoca Song alla manifattura dei vasi greci.
Tornando alla tua specifica collezione, dove hai raccolto questi pezzi?
Li ho trovati in Tailandia, in Cambogia, in Birmania, a Sulawesi in Indonesia ma anche nella stessa Bali e a Giava. Sono il frutto di ritrovamenti relativamente recenti dovuti al recupero di merci sulle rotte dell’esportazione che la Cina operava verso tutto il Sud-est asiatico: oggetti naufragati insieme alle imbarcazioni che le trasportavano.
Cosa raccontano oggi a un artista come te questi oggetti?
Da noi il monocromo comincia a essere percepito come interessante nel secolo scorso con Fontana o Rothko. In Cina già nel XII secolo la porcellana monocroma è al centro dell’attenzione per le élite intellettuali che le dedicano un’ammirazione impensabile per l’occidente di allora. La cottura della terra per la cultura cinese è sempre stata vista come un misto di sapienza, di effetti ricercati e di meraviglia alchemica: da un forno non sai mai con certezza cosa può uscire, puoi padroneggiare la tecnica, mai l’intero processo. Per un intellettuale cinese del XII secolo, per un occidentale del XXI lo stupore di fronte a forme come queste, in fondo, è il medesimo.
‒ Aldo Premoli
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