Architetti d’Italia. Alessandro Anselmi, l’accademico
Luigi Prestinenza Puglisi passa al setaccio la carriera di Alessandro Anselmi. Tra desiderio di aggiornamento formale e ancoraggio al “bello stile”.
Alessandro Anselmi nasce nel 1934, in tempo per vivere da protagonista gli Anni Sessanta, cioè la stagione della contestazione, e, in architettura, della critica ai dogmi del Movimento Moderno, anticipati dalla crisi dei CIAM, i Congressi Internazionali di Architettura Moderna. E difatti nel 1962, all’età di ventotto anni, è tra i fondatori del GRAU, Gruppo Romano Architetti e Urbanisti, collettivo di punta che sostiene il recupero della centralità artistica del fare progettuale, a partire dal recupero della storia. Si tratta di una posizione fatta propria da una nutrita schiera di architetti che militano nella sinistra. Con un ragionamento che ricorrerà negli anni successivi, tanto che anche oggi non mancano teorici, quali Pier Vittorio Aureli, che, sia pure in parte, lo riprendono. Il Movimento Moderno, con la sua ansia di razionalizzazione, di funzionalità e di produttività, ha dato forma, a volte inconsapevolmente e a volte scientemente, al capitalismo industriale e, in seguito, finanziario. La sua colpa è stata l’aver banalizzato la complessità dell’essere umano riducendolo a una dimensione meramente tecnica e produttiva, così come i testi sacri, penso per esempio al libro di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, a partire dagli Anni Sessanta non si stancano di denunciare. Recuperare il simbolico, la cultura classica, la vibrazione della poesia, la fertile inutilità del gioco diventa, per i giovani impegnati, un atteggiamento politico. Un atto di ribellione contro l’omologazione del sistema.
Ciò non vuol dire, ovviamente, abbandonare i Maestri dell’età eroica dell’architettura del Novecento: per esempio si riscopre il Le Corbusier lirico contro quello malinteso della macchina per abitare e si rilegge la storia del presente, da Loos a Mies, cercando nella loro opera valori prima trascurati. Qualità che, invece, appaiono assenti nei progettisti proiettati esclusivamente verso la tecnologia: da qui lo scontro che esploderà negli Anni Settanta contro l’High Tech e comporterà l’ostracismo e la scomunica di edifici quali il Centro Pompidou a Parigi.
Per una strana contraddizione, ma la storia di paradossi è piena, proprio coloro che vogliono recuperare da sinistra la storia guardano a due architetti inquadrati nel clima culturale degli Stati Uniti: Louis Kahn e Robert Venturi. Del primo apprezzano il dialogo con il passato, il recupero della dimensione monumentale, il rifiuto di rincorrere le tecnologie contemporanee. Del secondo la complessità e la dimensione polisensa dell’atto poetico, e cioè quella stessa molteplicità di significati che in Italia il filosofo marxista Galvano della Volpe teorizzava con un coraggioso lavoro di ripensamento e revisione dell’estetica del realismo socialista e delle sue tare hegeliane.
Oggi sappiamo quanto la tensione ideale sia presto degenerata in uno storicismo banale, in un kitsch postmodernista, in una insopportabile retorica del buon tempo antico contrapposta alla società dei consumi. E anche i prodotti migliori realizzati in quegli anni, come appunto quelli di Anselmi e del GRAU, ci lasciano perplessi. Più che opere in grado di abbracciare un vasto orizzonte temporale ci fanno semplicemente pensare a prodotti fuori dal tempo, come il cimitero di Parabita disegnato da Anselmi con Paola Chiatante nel 1967 e la cui pianta allude alle linee di un capitello corinzio. Non a caso una delle ultime opere del GRAU fu nel 1980, quando il gruppo di fatto si sciolse, una delle tante facciate di cartapesta della Strada Novissima della Biennale veneziana di architettura di Paolo Portoghesi.
FARE I CONTI CON LA STORIA
Certo è però che, senza affrontare questo delicato passaggio culturale, poco si potrebbe capire della personalità di Anselmi e delle sue opere successive, alcune decisamente notevoli, ma sempre affette da questo peccato originario. Dal bisogno irrisolto di fare i conti con la storia, più che con le semplici esigenze delle persone.
Vi è, insieme a questo aspetto alto, un altro più prosaico. Che si può riassumere nel sospetto per l’opera delle avanguardie artistiche. Non so quanto tale chiusura sia un carattere peculiare della sinistra o, più in generale, della cultura italiana: in questo Peppone ha sempre concordato con Don Camillo. Certo è che da noi da sempre si sono apprezzati più la Metafisica che il Futurismo, più la cultura classica che la rivoluzione di Duchamp e dai dadaisti. Anselmi, nonostante la vasta cultura e le innumerevoli curiosità, non mi sembra fare eccezione. Per quante aperture possa aver avuto verso la sperimentazione, alla fine le sue simpatie erano per la cultura accademica. Ricordo ancora la mia sorpresa quando, percorrendo la retrospettiva al MAXXI del 2004, mi accorsi che i suoi molti disegni erano figurativi: corpi umani, teste, cavalli. Segno, a mio avviso, di una esistenziale chiusura a quanto non rientrasse in un universo di segni consolidato da tempo immemorabile.
DOPO GRAU
Esauritasi l’esperienza con GRAU, Anselmi ha intrapreso, tuttavia, un lungo, intenso e appassionato percorso alla ricerca di quella contemporaneità che negli anni precedenti era stata trascurata. Le sue opere, soprattutto le più recenti, mostrano apertura, sia pur vigile e sospettosa, verso le ricerche formali che dalla fine degli Anni Ottanta venivano a maturare fuori Italia, nelle realtà culturalmente più dinamiche. A ciò si aggiunge un innato talento e una facilità verso la forma che ‒ a differenza di storicisti dalla mano più pesante ‒ lo hanno da sempre caratterizzato. Ne sono venute fuori opere di notevole fascino, come per esempio il Municipio di Fiumicino (1996-2002), da molti celebrato, e non senza ragioni, come uno dei capolavori dell’architettura italiana a cavallo del nuovo millennio. E in effetti il miracolo di questa opera è l’aver generato una piazza-edificio piegando ingegnosamente un piano, per così raccontare che la nuova sede della municipalità non è solo un insieme di spazi coperti ma una agorà. La storia, pesantemente presente nelle opere del passato, diventa in questa occasione un racconto lieve, più moderno, vibrante. Ci sono però due perplessità. La prima è che in questa agorà ci vanno proprio in pochi, spesso nessuno. Non c’è ombra, non ci sono servizi -bar, negozi, spazi di ritrovo che spingano a occuparla. Negli Anni Sessanta l’insegnamento della cultura antagonista a GRAU era che non bisogna progettare spazi ma attività, perché sono queste che generano vita, movimento. Dal Team X agli Archigram, da Ralph Erskine a Giancarlo De Carlo la lezione è una sola: si disegnano le relazioni non gli oggetti. Una lezione che Anselmi mostra di non aver voluto mai recepire, assorto come era nella ricerca della bellezza. Controprova? Ecco la seconda perplessità: osservate la ringhiera che delimita la piazza. Sicuramente posticcia e pensata in un secondo momento per assolvere un obbligo normativo. Racconta, più che un trattato di critica, quanto poco importante sia stata l’idea che la piazza la avrebbero dovuta frequentare persone concrete, che, diversamente dall’uomo come idea, corrono il pericolo di cadere dal piano inclinato. La funzione? Chi se ne importa, avrebbe detto Philip Johnson, il quale aveva dichiarato che avrebbe preferito dormire all’interno della scomoda cattedrale di Chartres che in una banale camera di albergo. Dimenticando così che proprio la trasposizione poetica del concetto di funzione ha vertebrato le ricerche formali più riuscite della nostra contemporaneità. Il risultato, nel caso delle opere pur di altissimo livello di Anselmi, appare a questo punto ambiguamente schizofrenico: dilaniato tra l’ansia di aggiornamento formale del lessico e una incapacità di abbandonare il bello stile per buttarsi all’interno dei temi dell’oggi. E difatti la piazza del municipio di Fiumicino ci ricorda, ci evoca sin anche gli spazi della democrazia greca ma alla fine, proprio perché condannata a essere vuota, non ci convince. La contemporaneità esige la conoscenza della storia ma anche un radicale grado zero delle sue forme. Insomma: se si vuole cantare come i Rolling Stones non lo si può fare con la voce e con le regole di Pavarotti. Se no si sta sempre in un pericoloso bilico tra il presente e il passato. E si corre il rischio di essere vintage: insieme nuovi e vecchi. Per alcuni è un valore. Non per chi sta scrivendo questa nota.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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