Il mercato del Sol Levante. Kusama & friends
Un dettagliato reportage dal Giappone in fatto di vendite e mercato. A partire dalla star Yayoi Kusama.
Alla luce del record d’asta stabilito lo scorso giugno da Kazuo Shiraga (1924-2008), autore del dipinto del 1959 venduto a Parigi per 8.7 milioni di euro, giunge a maturazione il mercato degli artisti Gutai, gruppo fondato da Jiro Yoshihara (1905-1972) alla metà degli Anni Cinquanta e attivo fino ai primi Anni Settanta con una ricerca tra performance, pittura gestuale e installazioni ambientali. Le opere Gutai convincono per la potenza di colori e l’equilibrio di forme apparentemente espressioniste ma sorvegliatissime, dove nulla è lasciato al caso, come nella migliore tradizione artistica giapponese, particolarmente apprezzata dai collezionisti europei fin dal Settecento. Anche gli autori che ruotavano intorno al gruppo Mono-Ha, tra cui il più celebre è certamente il coreano Lee Ufan (nato nel 1936, il cui record di 2.2 milioni risale al 2012), sono sotto i riflettori, forse anche per una certa vicinanza ad alcuni elementi dell’Arte Povera occidentale. A questi due movimenti Sotheby’s, Christie’s e Bonhams riservano particolari attenzioni, in alcuni casi mediante aste dedicate due volte l’anno a Londra e New York; il consolidamento di Hong Kong quale piazza asiatica dell’arte, inoltre, spinge in alto le quotazioni di questi artisti.
YAYOI KUSAMA
Ma chi è diventata un autentico simbolo della nazione è Yayoi Kusama (1929), che ha saputo costruire un ponte tra quelle ricerche e la componente pop della cultura giapponese di massa; nell’anno del suo 89esimo compleanno, alla sua attuale identità di provocatorio saggio jedi, il Giappone quest’anno ha dedicato più di una mostra, tra cui la personale al museo di Matsumoto, sua città natale, chiusa alla fine di luglio, e quella al Forever Museum of Contemporary Art di Kyoto ad esempio, non contando i progetti che lo Yayoi Kusama Museum, gestito dalla sua stessa fondazione nel quartiere di Shinjuku a Tokyo, organizza a ciclo continuo. Zucche colorate e a pois si incontrano non solo nelle piazze o davanti ai musei, come nell’isola di Naoshima, il tempio dell’arte contemporanea internazionale, e in tutti i bookshop di musei, ma perfino al duty-free all’aeroporto, testimonianza più che visibile del suo successo, che non è solo popolare ma anche di mercato. Nel 2014, infatti, uno dei suoi dipinti del 1960 ha stabilito il record di 7.1 milioni di dollari. Kusama sembra essere al centro degli interessi di chi cerca la “vecchia” scuola, le radici dell’arte del Novecento, ma anche di chi si sente più affine al gusto dei giovani.
TAKASHI MURAKAMI
Considerando gli artisti giapponesi, non va comunque dimenticato che colui al quale i collezionisti e la moda hanno risposto con più entusiasmo negli ultimi dieci anni è Takashi Murakami (1962): il suo record del 2008 a New York, My lonesome cowboy (1998), venduto per 15.1 milioni di dollari, supera tutti quelli prima menzionati; da ricordare anche Yoshimoto Nara (1959), il cui record, 3.4 milioni di dollari per un dipinto del 2006, è stato conseguito nel 2015.
E se c’è grande consapevolezza per queste eccellenze, oggi sembra percepirsi un certo movimento intorno agli artisti attivi tra gli Anni Ottanta e i Novanta, attivi prima dell’emersione della generazione Murakami, per intenderci, grazie e a causa di una certa ripresa economica che favorisce le riscoperte. Al 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa, ad esempio, fino al 21 ottobre è in corso Starting Points: Japanese Art of the ‘80s, un’ampia retrospettiva che mette a fuoco autori che recuperano la pittura figurativa e si immergono nell’analisi critica della cultura di massa e della società contemporanea nelle sue manifestazioni più urbane; particolarmente convincenti sono le opere di Kenjiro Okazaki (1955), Yasumasa Morimura (1951), Shinro Ohtake (1955), Tadashi Kawamata (1953) e Kazumi Nakamura (1956).
I PIÙ GIOVANI
Nelle gallerie commerciali (Perrotin, Blum & Poe, Taka Ishii, Sueo Mizuma…), infine, sono presenti artisti più giovani che rielaborano la cultura manga in chiave critica – come Kondoh Akino (1980), i cui video sono particolarmente ipnotici – e che stabiliscono un nesso con l’architettura giapponese degli ultimi decenni. La qualità degli spazi, non solo museali ma anche commerciali (nei quartieri di Omote-sando e Ginza a Tokyo, ad esempio), realizzati dagli architetti delle diverse generazioni (Tadao Ando, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Yoshio Taniguchi), è davvero altissima e non può che influenzare chi realizza installazioni.
A questo proposito, l’opera-che-vale-un viaggio in Giappone è certamente quella realizzata a quattro mani dall’architetto Ryue Nishizawa e dall’artista Rei Naito (1961) sull’isola di Teshima, nel mare interno di Seto. Un sinuoso, perfettamente liscio e bianco guscio di cemento, attraversato da due ampie aperture circolari che mettono in contatto l’interno con il folto bosco in cui padiglione è collocato; minuscole sorgenti d’acqua sgorgano dal pavimento e alimentano delicati rivoli che formano piccolissimi corsi d’acqua. Questa sorta di vie di collegamento sembra disegnare nuclei urbani del futuro, un futuro pulito, che vive in armonia con la natura e con la società della comunicazione, dove tutto appare misurato e controllato ma allo stesso tempo libero e creativo. Quella conchiglia e quello che si percepisce al suo interno, tra stupore, serenità e pace, ha davvero un valore inestimabile.
‒ Antonella Crippa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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