Francesco De Grandi, pittura e rivoluzione. A Palermo
Rizzuto Gallery, Palermo ‒ fino al 17 novembre 2018. L’ultima personale di Francesco De Grandi, tra gli eventi collaterali di Manifesta 12 a Palermo, è un’occasione per discutere ancora di pittura contemporanea e per scrutare da vicino gli anni recenti della sua ricerca, fra studio della natura e sentimento del sacro. Uno tra i maggiori pittori italiani, che ha scelto una via personalissima, coraggiosa.
Il principio delle cose. Ciò da cui tutto arriva e verso cui tutto tende: l’ultimo limite che non è mai ultimo, nel suo perdurare e superarsi all’infinito. Il sentimento del sacro è qui, nella capacità di accogliere questa segretezza immacolata, al di là della quale niente può essere pensato, misurato. Al mistero degli enti e delle cose si rivolge Francesco De Grandi (Palermo, 1968) con una pittura nutrita di letture, viaggi, incontri quotidiani e minuti, esperienze radicali, meditazioni e smarrimenti, folgorazioni e disciplina affilata. Al centro c’è la questione del sovrannaturale, così come si invera nel corpo sensibile della natura, facendosi donna, uomo, fauna, flora, forme transitorie. Creature.
MISTERO RELIGIOSO E PITTURA DI PAESAGGIO
Dopo anni trascorsi a restituire la sontuosità del paesaggio, con un’abilità tecnica mai soffocata dal virtuosismo e sempre vivificata dallo slancio intellettuale, De Grandi si pone completamente oltre il perimetro del “genere” e fa della natura il luogo di Dio. L’orizzonte biologico, carnale e insieme matematicamente esatto della trascendenza. Come creatura, personale inaugurata a Palermo nell’ambito degli eventi collaterali di Manifesta 12, record di visite per la Galleria Rizzuto che l’ha prodotta e ospitata, è un progetto di respiro museale, la cui realizzazione copre un periodo travagliato e lungo. Si tratta di un viaggio tra i sentieri del sacro, lo stesso che Rudolf Otto identificava col “Totalmente Altro”, ciò che è differente, occulto, alieno, opaco, sigillato, eppure visibile, laddove vedere significa accettarne il trauma, il doppio scotimento: “mysterium fascinans et tremendum”, fra timore reverenziale e attrazione fatale, repulsione e desiderio, accecamento e rivelazione.
E siamo tutte creature, dinanzi al mistero. Create, sulla soglia dell’origine, e insieme creaturae, declinate al futuro, verso ciò che non è dato conoscere e che instancabilmente muta. Quell’origine continuerà ad attrarre come un magnete; a sedurre, come bellezza aurorale. E a spaventare, come ciò che non si decifra e non si doma.
L’EDEN E LA MACCHINA DEL TEMPO
L’apertura della mostra è affidata a un gigantesco Eden, sinfonia di arbusti, rocce, tappeti d’erba e infiorescenze sparse, banchi di nuvole e cieli tersi, con i corpi innocenti di Adamo ed Eva inchiodati allo spettacolo grandioso. Intorno a loro stambecchi, uccelli, un ghepardo, il serpente sinuoso e non ancora sinistro… Sono lontani l’ombra dell’inciampo, il richiamo della trasgressione, il rumore della caduta e della disperazione. Tutto è perfetto, radioso. E tutto risuona, in accordo col sistema dei pianeti e delle idee.
La visione è ad altezza drone, sottilmente contemporanea, tanto cinematografica quanto mitologica; e vi convivono i fiamminghi e i tedeschi del Cinquecento, il realismo del Barocco, i romantici, i simbolisti e i paesaggisti francesi, e la fantascienza, il cinema di Tarkovskij, la poesia di Rimbaud o Dylan Thomas… Perché la pittura, per l’artista palermitano, è una macchina del tempo. In essa si compie una miracolosa fusione tra stili, memorie, epoche, esercizi del pensiero e del pennello. Fino ad annullarlo, il tempo. A confonderne le soglie e le scansioni in una pasta irriverente, irregolare.
LA TRILOGIA SU CRISTO
La stessa tensione dell’ouverture si ritrova in chiusura, ma nei toni cupi della tragedia e della fine: un imponente trittico interpreta tre episodi cruciali del Nuovo Testamento, trasposti in una Palermo perduta e decadente, con le consuete rivisitazioni che disturbano l’iconografia classica e accendono la frequenza del perturbante.
L’ingresso di Gesù in città è un’allucinazione spaventosa, pittura che abbaglia ed è teatro, poema epico, visione arcaica: un corteo di fiaccole, un brulichio di corpi in cammino, un tappeto di fuoco in un set di rovine, a evocare l’enfasi e la minuzia di Bosch, Brueghel, Memling… La flagellazione si consuma invece in un vicolo buio, tra personaggi da circo Barnum, da basso impero o da marciapiedi di periferia, fondendo Goya, Dix, Ensor, Ciprì e Maresco. Città dell’ombra e del declino, dove si materializzano il sonno della ragione e l’occhio cieco dell’inferno.
Infine, il compianto del Cristo morto è la vicenda di un corpo qualunque, che nessuno celebra a parte le stelle, e nessuno piange a parte un’esile donna, coi piedi scalzi e le mani sul volto. Lei: comparsa tre le comparse, senza volto e senza nome. E la fatica del vecchio ciuco, il cigolio dei pneumatici montati sul carretto, la schiena curva del cocchiere western… Così procede il feretro, lungo i confini del mondo, in cima al Monte Pellegrino, mentre al di là della ringhiera si leva un firmamento indaco, surreale. Un filo di luce brilla sulla salma coperta, all’altezza del capo: l’unico indizio di Dio e della resurrezione che verrà.
Tra la prima e l’ultima sala della galleria c’è un ciclo di carte e di tele verde fluo, intitolato al mistero del femminino, alla fusione panica tra nudità del corpo e cavità del paesaggio, tra la dimensione onirica della notte e quella sfavillante della verità; e ci sono piccole tele, un’installazione imponente di disegni, racconti di mostri, santi, asceti, disperati, paesaggi distopici, malie notturne, boschi feroci. Un viaggio nel cuore dell’Occidente, tra millenni di passione, timore e tremore.
LA RIVOLUZIONE IN PITTURA
La pittura di De Grandi, indifferente a estetiche à la page e conformismi vari, giunge a una maturità piena, subito leggibile nella straordinaria qualità del colore, del segno, della rivisitazione iconografica. Una pittura che fa i conti ossessivamente con la tradizione, mentre una vibrazione contemporanea la attraversa, col gusto sottile del tradimento e della mescolanza.
Nel suo sfacciato rivolgersi all’indietro essa richiama quelle particolari epifanie della rottura, definitesi lungo la storia dell’arte tra il piano estetico e insieme politico. Perché è anche nello spazio di una narrazione apparentemente inattuale, distante dalla cronaca, dall’orizzonte del pop o del reportage, che l’arte a volte incide sul presente. Praticando spostamenti audaci. Qui, in questa dimensione esteticamente e politicamente attiva, i segni e le forme toccano gli immaginari, riscrivono gli ordini di grandezza, orientano daccapo i metodi, i perimetri, i riferimenti comuni.
La rivoluzione di De Grandi ha a che fare con l’umano. Che rimette al centro, che richiama con veemenza e con una lentezza desueta. La pittura, in questo caso, sovverte. Suggerisce nuovi sguardi e nutrimenti; coltiva la fame d’immagini pesanti, radicate, aurorali; e supera, in una postmodernità ormai sfinita, la pulsione della copia, il tramonto delle grandi narrazioni, la seduzione di un pensiero debole, l’imperativo della leggerezza e della trasparenza.
E tornano il racconto, la voce delle cose, il ventre della terra e la spinta verticale, il bisogno di un arché e la sostanza dei corpi o dei fantasmi. Una specie di romanticismo, che però, figlio del XXI secolo, ha conosciuto il disincanto, il crollo, la schizofrenia, l’ebbrezza del lieve e del molteplice, il polverizzarsi della storia. E che dunque torna al principio passando dalla fine: inevitabilmente segnato. Tornare all’umano e non averne timore. La pittura, ogni tanto, è un fatto di sopravvivenza.
‒ Helga Marsala
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