Pittura lingua viva. Parola a Marta Mancini
Viva, morta o X? Dodicesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Marta Mancini (1981) vive e lavora a Roma. È attualmente in corso, fino al 24 novembre, la sua personale La molla, a cura di Pericle Guaglianone, da Matèria a Roma. La mostra si compone di un corpus di dipinti di rilevanti dimensioni, tutti realizzati tra il 2017 e il 2018, in cui si condensano gli esiti della sua ricerca recente. Sue opere sono inoltre esposte fino al 15 novembre nella collettiva The HP Collection, presso Operativa Arte Contemporanea, Roma. Tra le personali e collettive: Abita galleria S.A.L.E.S, Roma (2012); Ospiti, 34 angeli, Roma, (2010); Dialogue #1 Matèria, Frontiera Studio, Palermo (2018); Rosina#1 – Spectrum, Limone Space, Londra (2018); La vita della mente, Istituto Svizzero, Roma (2017); Scivolare lentamente, Spazio Yellow, Varese (2016); Dodici stanze, CIAC, Genazzano – RM (2015); Private ‒ Simone Berti, studio Geddes-Franchetti, Roma (2015); Premio Limen, Palazzo Comunale E. Gagliardi, Vibo Valentia (2014); Appuntamento al buio, CIAC, Genazzano – RM (2013); Premio Zingarelli, Castellina in Chianti – SI (2012); Punti di Vista, Galleria Nazionale, Cosenza (2012).
Come ti sei avvicinata alla pittura?
In modo abbastanza naturale, fin dall’infanzia, provenendo da una famiglia di musicisti e artisti. Mi piaceva disegnare, mi piaceva stare nella mia stanza.
Chi sono i tuoi maestri e gli artisti, più o meno vicini, cui guardi?
Imparo tanto dagli amori, tra i primi Klimt e Kandinskij, Parmigianino e Veronese, de Chirico, Carrà… Ma devo ammettere che imparo altrettanto al “negativo”, da artisti più lontani da me, come ad esempio Koons. Un incontro molto importante è stato quello con Cesare Tacchi, mio professore a scuola durante le superiori.
Analizzando i tuoi lavori dal 2009 a oggi è evidente un fluido scivolamento dalla figurazione (ritratti, paesaggi) alla astrazione. La tecnica che impieghi nei tuoi paesaggi, penso a quelli del 2012, precorre gli ultimi lavori (quasi li contiene in nuce), in cui in maniera analitica ti soffermi su un singolo, determinato gesto/risultato: la pennellata, che isoli e rendi autonoma a livello di significato e significante in maniera sempre più precisa ed esasperata dal 2015 fino agli esiti del 2018. Cosa rappresenta per te una pennellata di colore?
C’è stato un passaggio che mi ha fatto spostare il lavoro visibilmente, a tal punto che nei momenti più “vivi” di questo spostamento ho avuto l’impressione di perdere il filo. Ma l’astrazione e la figurazione il più delle volte hanno differenziali minimi, tendono verso la stessa cosa. Così credo ci sia un equilibrio fra il rappresentare se stessi e il rappresentare qualcosa. Nei miei ultimi lavori questo accordo penso sia più evidente, la pennellata si denuncia in quanto tale, in maniera abbastanza semplice e chiara. Allo stesso tempo, però, non basta a se stessa: serve a raccontare qualcosa, mantiene viva una certa figurazione del quadro, fino a caricarsi di una sorta di animismo; un po’ come avviene nei paesaggi.
E, più in generale, cosa rappresenta per te il colore? So che lo associ a determinate parole chiave…
Come scrissi un paio di anni fa, uso il colore in relazione a parole chiave che ho nella mente. C’era il colore “goffo”, il “cupo”, il “lezioso”, il “caramella” e così via… Un elenco di parole che descriveva quella varietà di cromie che però al tempo stesso è una varietà finita, perché personale e non sconfinata come nella realtà. Quando uso un colore rispetto a un altro penso a questo genere di cose, piuttosto che al colore stesso.
Opere come Senza titolo (Il cadavere) del 2011 e Senza titolo (Il leone) o, ancora, Senza titolo (Il lago), entrambe del 2012, sono caratterizzate da una sorta di storytelling sospeso e onirico… Perché hai poi abbandonato questo approccio?
Nel mio approccio alla pittura di quel periodo la parte più connessa alla pancia era quella trainante; questa si portava dietro la parte riflessiva, che era ancora acerba. Non è stato un abbandono, quella parte fatta di nervi c’è ancora. L’ho vissuto come un cambio di pelle, lento e tortuoso ma necessario.
Spazio fisico e spazio mentale… Come convivono nel tuo lavoro?
Nel mio lavoro l’uno rimanda all’altro e viceversa. D’altronde la fisicità e le grandezze hanno una notevole propensione a entrare nella testa…
Parli spesso di ossessione e reazione quali poli essenziali che ti danno il ritmo. Cosa intendi? Anche l’aspetto umorale è un dato che consideri importante per la lettura dell’opera. Mi piacerebbe approfondire questo tema.
Quando parlo di questo penso alla mia quotidianità cadenzata ‒ o a volte incalzata ‒ da piccoli e grandi eventi. Quella che chiamo ossessione rappresenta l’aspetto del lavoro più paludoso, molle, ripetitivo, a volte angosciante, ma forse anche più autentico. Invece per reazione intendo lo slancio, il balzo in avanti, fatto anche di sbagli e tutto ciò che ne consegue. Questa dialettica, come in generale le contraddizioni, è dietro alla mia pittura.
Quali sono le tue fonti d’ispirazione? Musicali, letterarie, cinematografiche…
Potrei citare Asimov, Pirandello, Dario Argento… Sicuramente la musica, che mi accompagna in modo costante: i Beatles, Charlie Parker. La musica è quasi un secondo pilota nello studio, in questi ultimi anni la scelta si è fatta più maniacale e ripetitiva. Preparo da me lunghe compilation, prevalentemente di musica hip hop o techno e derivati; credo sia per via di una componente ritmica e più pop che mi fa sentire il contatto con l’esterno.
Ci sono tecniche o materiali che prediligi?
Trovo che l’acrilico sia il materiale più adatto al mio modo di dipingere, innanzitutto per i tempi: le asciugature veloci mi permettono di andare sopra molte volte e di non perdere il momento in cui sento il bisogno di agire.
La tua è una pittura che parla di se stessa. Come e perché hai avviato questo percorso autoriflessivo e metalinguistico?
In parte questo dipende dall’ambiente in cui mi sono formata. Non ho mai creduto veramente alla “morte della pittura”, ma la delusione provata quando si era soliti sostenere questa tesi è stata una spinta decisiva. L’arte può andare avanti solo quando in essa è contenuto anche un discorso sul linguaggio, che sia più o meno esplicito. Di conseguenza il territorio metalinguistico, autoriflessivo, è tuttora molto stringente. Ho avviato questo percorso in modo del tutto istintivo, riflessioni più consapevoli sull’argomento sono venute un poco alla volta.
Cosa pensi della pittura italiana contemporanea?
Pensando a un confronto generazionale, direi che oggi la situazione è più facile rispetto a qualche anno fa. Artisti delle generazioni precedenti alla mia hanno creato un terreno che adesso possiamo calpestare o percorrere. Oggi il pittore non è più necessariamente un eroe e questo, d’altra parte, complica le cose. È stato “ricucito lo strappo”. Nonostante questo, noi, impegnati forse a masticare nuove forme di normalità, rimaniamo un punto interrogativo.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
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