Francesco Ardini – Lethe
Lethe è un fiume degli Inferi come fu Stige, titolo della precedente personale di Francesco Ardini per Federica Schiavo Gallery (Roma, 2015). Per l’artista, il fiume è anche la connessione tra il suo medium preferito e la sua terra d’origine: quattrocento anni fa la popolazione del piccolo comune vicentino Nove ricavava l’argilla dal Brenta, dando inizio a una tradizione oggi consolidata.
Comunicato stampa
Nella mitologia greca e romana, immergersi nel fiume Lethe significava perdere memoria di quanto vissuto. L’oblio per gli antichi era un’esperienza al contempo negativa e positiva, riduceva la consapevolezza del proprio passato e preparava a un nuovo inizio. Lethe è un fiume degli Inferi come fu Stige, titolo della precedente personale di Francesco Ardini per Federica Schiavo Gallery (Roma, 2015). Per l’artista, il fiume è anche la connessione tra il suo medium preferito e la sua terra d’origine: quattrocento anni fa la popolazione del piccolo comune vicentino Nove ricavava l’argilla dal Brenta, dando inizio a una tradizione oggi consolidata.
Nella “Stanza dei ricordi”, un’installazione a pavimento rappresenta Lethe, un fiume di memorie dalle forme imprecise, composto da segmenti tubolari in porcellana realizzati con la stampante 3D, tecnologia testimone di un fare unico e continuo come lo scorrere del pensiero. Cumuli di polvere di porcellana, forme in gres, smalti e feldspati con inclusioni di manganese, grafite e cristalline, colori diversi marcano l’aspetto magmatico e caotico del pensiero. Gli elementi emergono da un archivio eterogeneo di oggetti antichi ed effetti personali, decorazioni tradizionali e immagini dell’inconscio. Delle reminiscenze e dei pensieri siamo solo parzialmente consapevoli: a questo alludono le configurazioni di polvere in porcellana, frammentarie, ma perfettamente immobili.
Il primo ambiente contiene e si compie con una stampa di grandi dimensioni, preludio de “Il giardino immaginario delle Paradisaeidae”. I paesaggi celesti sono il risultato di un processo di astrazione di una serie fotografica, realizzata fra gli anni Settanta e Ottanta nel Museo della Ceramica di Nove (Vicenza). L’artista ha acquisito e modificato le immagini, trasformandole nel suo paradiso. Le Paradisaeidae sono composte da sezioni in aggetto ispirate ai movimenti delle classiche ceramiche appese ai muri del museo. Sono presenze architettoniche che trasportano in una dimensione spazio-temporale altra.
La mostra si chiude con un “Ritorno a casa”, dove per casa s’intende il mondo concreto che ci accoglie dopo un viaggio nell’immaginifico. Le opere ci riportano a forme familiari, quali zuppiere, brocche e vasi. Le tradizionali maioliche sono esposte, come nelle vetrine delle fabbriche di Nove, in uno stato di semi-abbandono, impolverate. Al tatto, la polvere si rivela non volatile, sorprendentemente stabile, e si nota il passaggio delle dita dell’artista, un gesto di ironica ma delicata interazione con il passato.