Questa sera si recita a cuore aperto. Antonio Marras sul palcoscenico
Anticipata dalla mostra con performance dell’anno scorso a Brescia da Massimo Minini, la pièce teatrale di Antonio Marras “Mio cuore io sto soffrendo, cosa posso fare per te?” debutta al Teatro Massimo di Cagliari per poi arrivare a Milano nel 2019. Con un titolo preso in prestito dalla celebre canzone di Rita Pavone, che diventa il pretesto per condurre il pubblico in una straniante e convulsa rappresentazione fatta di danze, canti, performance e brani recitati dove nulla è come sembra. Ne abbiamo parlato con Antonio Marras.
Ideatore, regista, costumista e scenografo di Mio cuore io sto soffrendo, cosa posso fare per te?. Come sei arrivato al teatro?
Vita? O Teatro? è il titolo dell’opera di Charlotte Salomon, un’artista ebrea, a me molto cara, che ha dipinto tutta la sua drammatica vita come una serie di scene di uno spettacolo. Ed è questo il senso del mio lavoro. Vita è teatro e teatro è vita. Il Teatro è il risultato naturale di tutto il mio lavoro. Mi sono ritrovato nel mondo della moda quasi per caso. Avevo bisogno di un palcoscenico su cui far vivere la folla di immagini che avevo nella mente, immagazzinate in tanti cassetti e pronte a venir fuori, chiamate da un’urgenza pressante. La moda mi offriva una possibilità unica. Mi permetteva di esprimermi mettendo in relazione tutte le arti, anzi fondendole in un unico segno, complesso, fatto di pittura, scultura, musica, danza, teatro, cinema, fotografia, poesia. Ogni sfilata diventa così un incontro di linguaggi differenti che generano cortocircuiti semantici. Un racconto, una storia visualizzata attraverso parola, gesto, suono, luci, scenografia, coreografia, abiti. Se uno solo di questi elementi mancasse o fosse stonato, tutto verrebbe sconvolto. Tutto è congiunto con tutto.
Da cosa è stata dettata la scelta del titolo?
Mi trovavo con Massimo Minini a parlare dell’inaugurazione della mia mostra Seipersei in galleria da lui a Brescia e io gli ho detto: “Mi piacerebbe fare una performance che si intitola “Mio cuore, tu stai soffrendo…”” e lui ha continuato: “Cosa posso fare per te?” e ho pensato che era un segno. Massimo mi ha detto: “Non so cosa vuoi fare, non sono appassionato di arti performative, ma ti seguo in questo progetto, sono curioso di vedere cosa ne esce”. E in effetti non lo sapevo neanche io. Ho solo seguito il mio istinto, che a sua volta è succube delle volontà del cuore. Ma il titolo è solo uno spunto, la canzone della mitica Rita Pavone è un pretesto per parlare, esprimere, raccontare, suggerire e talvolta urlare il mal-être.
Io ho lavorato senza fermarmi a pensare. Non c’è tempo. È tardi, è tardi, è tardi, come diceva Bianconiglio in Alice nel paese delle meraviglie: “Qui devi correre più che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche parte devi correre almeno il doppio”. E io corro, corro, corro. E quello che risulta è una convulsa rappresentazione di storie e racconti di esperienze dirette o indirette dove niente è come sembra.
Qual è stato il criterio di selezione del cast?
Ho avuto una grande fortuna: nel 2008 Luca Ronconi mi ha chiamato per disegnare gli abiti di Sogno di una notte di mezz’estate e, a parte il privilegio di aver potuto lavorare con Ronconi, artista impareggiabile, sono entrato in contatto con Gianluca Sbicca, costumista del Piccolo e non solo. Gianluca, grande professionista, mi ha introdotto a tutti gli attori più dotati degli ultimi tempi. Recentemente ho utilizzato artisti, performer, attori per “sceneggiare” le mie sfilate e Gianluca mi ha aiutato nell’individuare un coreografo, che poi è Marco Angelilli, con il quale lavoro a Mio cuore, sia i personaggi della pièce. Ci vogliono sensibilità, conoscenza e amore per selezionare le persone giuste per il ruolo giusto. Io ci ho lavorato molto e sono molto soddisfatto. L’interprete fa la differenza. Qui ho la fortuna di lavorare con veri miti del teatro come Ferdinando Bruni e Federica Fracassi, tra i tanti, e poi con persone come Simonetta Gianfelice, che di professione faceva la top model e che per la prima volta recita. È bellissimo, emozionante e coinvolgente.
In quale modo è strutturata la pièce teatrale?
Sono 14 momenti, 14 tranche de vie, 14 azioni che registrano episodi, sogni, turbe, incubi e ossessioni. 10 uomini e 10 donne e 10 cuori vestiti di niente o con gli abiti appoggiati come se si trattasse di corpi estranei, elementi inutili o imposti dal comune senso del pudore.
Entrano in scena in fila e, portando a turno 20 banchetti, 10 vassoi, 10 cuori e 10 campane di vetro, si dispongono di fronte al pubblico. È solo la prima di 14 scene che mettono in mostra il comune sentire di generazioni di figli, compagni e amanti.
Senso di colpa, angoscia, smarrimento e tensione e paura di tutto. Della maestra, dell’età, della famiglia, delle feste, della religione e forse anche della forza del cuore. Soprattutto paura del cuore, al quale siamo asserviti e che decide dei nostri destini, nostro malgrado. Una serie di atti performativi, canti, balli e brani recitati che raccontano un sentire inquieto e poetico, mostrando la tensione e il coraggio di un profondo e sincero dialogo con se stessi per arrivare alla verità.
Cosa vuoi comunicare con questo spettacolo e quali sono le tue aspettative in merito?
Non voglio comunicare niente, lo vivo come un atto terapeutico. A me serve, servirà anche ad altri? Spero di sì. Del resto l’esplorazione di noi stessi è sempre un atto doloroso e attraverso la sofferenza si arriva alla luce.
Quanto delle tue muse ispiratrici ‒ mi riferisco naturalmente a Maria Lai e Carol Rama ‒ dobbiamo aspettarci?
Credo che ormai facciamo parte del mio DNA. Anche se non volessi pensarci, loro fanno parte di me. È come per la Sardegna, posso anche disegnare un kimono ma ci sarà sempre chi ci vede una componente di un costume sardo. Sta a chi assisterà allo spettacolo riconoscerne le fonti. Maria mi ha dato il coraggio di esplorare me stesso; mi ha traghettato verso un universo che mi affascinava e mi faceva paura. “Ti ho lasciato bambino e ti ritrovo artista”, mi ha detto un giorno. Conservo gelosamente questa frase dentro di me. Lei mi ha dato la forza di parlare attraverso le immagini. Carolina mi ha insegnato la voglia di osare, naturalmente e liberamente; di avere il coraggio di provare, sperimentare, trasgredire le regole, violare i codici, preferire alla regola lo scarto dalla norma, la devianza con un particolare anche piccolo, un punto, una virgola. Non temere che l’eccesso e l’eccentricità trionfino sulla piattezza e sulla banalità del vestire comune. Non adeguarsi ai dettami imperanti e cercare lo scarto, il contrasto, l’errore, il varco.
Ci anticipi i tuoi progetti futuri? Ci riserverai altre sorprese?
Ho tanti progetti, ho appena customizzato quindici vocabolari per un progetto con Zanichelli; ho una collaborazione con il quotidiano L’Unione Sarda; usciranno una serie di tappeti a serie limitata e così via. Il 2019 mi attende con una serie di mostre e progetti che solo per raccontarli ci vuole un semestre. Io mi tengo occupato e mi immergo in progetti totalizzanti che mi fanno perdere la cognizione del tempo e dello spazio, elementi già poco percepiti di mio. La moda è lo zoccolo duro, è la pianta da cui nasce tutto e nel prossimo anno ci sarà una grande fioritura.
‒ Roberta Vanali
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