Scene dalla Grande Stagione (VII)
Abbattere i limiti e trovare nel principio femminile soluzioni applicabili al tempo attuale. Utopia, sogno o ipotesi di realtà?
“Viviamo tutti nell’incertezza, giorno dopo giorno,
ora dopo ora: in altre parole siamo gli eroi della nostra storia”.
Mary McCarthy
Sprofondare nel BUCO BIANCO.
Abolire ruoli e gerarchie vuol dire anche lasciare emergere liberamente i nuovi punti di vista; non incanalarli; non condizionarli.
Conclusa l’era dello sberleffo, della battutina, della trovata ironica (anche se ne vediamo ancora in giro) – l’ironia ridiventa seria.
“Persino qui in Assemblea c’è un cordone che divide quelli considerati importanti da quelli che stanno dietro. Eh no!” (Katia Tarasconi all’Assemblea Nazionale del PD, Hotel Ergife 17 novembre 2018): cancellare i limiti, gli steccati, le divisioni tra quelli importanti e quelli non importanti – non a caso è una giovane donna a dirlo (“Ritiratevi tutti, ripartiamo da zero!”).
Ritiratevi tutti. Abolire gli schemi e gli schermi. È un sogno, un’utopia? Mai è stato possibile come ora, forse. In questo tempo pazzoide & schizoide, in questo tempo in cui tutto sembra saltare per aria.
Il principio femminile è forse in grado di oltrepassare la logica e la razionalizzazione, di suggerire soluzioni visionarie e però applicabili (con sofferenza; con delirio; con dolore) nella realtà e nella pratica dell’esistenza. La logica è la morte (divisione; esclusione).
Includere, accogliere, accudire, curare. Amare. Abbracciare. (Immergersi.)
“Se siete pessimisti, leggendo questa storia sappiate rinunciare per un poco ai piacere del pessimismo. Sognate, per un folle momento, che l’erba sia verde. Disimparate quel sinistro che ritenete così chiaro; negate quella conoscenza mortifera che pensate di conoscere. Rinunciate al fior fiore della vostra cultura; abbandonate il più prezioso gioiello del vostro orgoglio; lasciate disperanza voi ch’entrate” (Gilbert Keith Chesterton, Charles Dickens, Methuen Ltd, Londra 1907, citato in Henry Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima, Feltrinelli 2016, p. 24).
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I diari, la scrittura dei diari (Anaïs Nin e Sylvia Plath, per esempio) come “retro” della letteratura: il processo nel suo farsi, la possibilità di un accesso diretto e immediato, autentico. Perché 8½ è più efficace de La dolce vita? Per la sua malinconia, e la sua capacità di spingere ancora più a fondo la leva del diario, del film nel suo farsi, del discorso sul fallimento sempre incombente. Il film scompare, svanisce, non si fa più – e in questo “non farsi” si viene formando, si è formato, si costruisce e si assembla passo passo, nell’incertezza.
Scrivere è creare una distanza, un filtro – vagare, fluttuare – la scrittura consiste nello schermo per eccellenza: e così, forse è impossibile scrivere nell’autenticità assoluta, dall’autenticità assoluta. (Per farlo devi rintanarti…) Eppure no, sento che in fondo non è così: sento che tuffandosi nel buco profondo, nel vortice, e avendo la forza di riemergere per raccontare, è possibile mantenere insieme le due posizioni.
Riunificare questi due stati/livelli è il primo passo: solo compiendo questo salto si può vincere la paura dell’ignoto e danzare. Almeno: cominciare a danzare.
Trasformarti – accettare il flusso (che è la vita) e questa trasformazione – lasciare disperanza – vuol dire allora anche accettare i consigli, fidarti dei suggerimenti che ti vengono dati: “Ci lasciamo sfuggire il fatto che il significato si svela solo quando scopriamo la gratuità della creazione” (Henry Miller).
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Stelle che si polarizzano. Orbite che si deformano.
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Uno scivolare – per agganciare un universo di temi nuovi – un nuovo modo di pensare (: femminile), una struttura di pensiero – scrivere e riscrivere, cadere e ricadere.
Includere, accogliere, accudire, curare. Amare. Abbracciare. (Immergersi.)
Primi saggi di evoluzione: inseguire delle idee che sfarfallano, che ti inseguono a loro volta.
Le mie insicurezze, i miei errori, discendono da un fraintendimento degli scopi e del percorso: “Sono sempre stato razza inferiore, questo mi è proprio chiaro. Non posso capire la rivolta. La mia razza non si ribellò mai se non per predare: come fanno i lupi con la bestia che non hanno ucciso loro. (…) Lebbroso, me ne sto seduto su cocci e ortiche, ai piedi di un muro smangiato dal sole. – Più tardi, cavaliere di ventura, avrei bivaccato nelle notti di Germania. Ah! Un’altra cosa ancora: in una radura rossa sto ballando il sabba, con vecchie e bambini” (Arthur Rimbaud, Cattivo sangue, in Una stagione all’inferno, 1873).
‒ Christian Caliandro
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