Il regalo dello spettatore
A Natale (e magari anche a Pasqua) è tempo di giocattoli e coerenza. Ma cosa c’entra la coerenza con i giocattoli? Apparentemente, niente. Secondo gli psicologi sociali invece moltissimo, perché chi vende giocattoli basa le proprie strategie pubblicitarie proprio sul meccanismo psicologico detto “principio di coerenza”.
Secondo il “principio di coerenza”, un determinato giocattolo viene pubblicizzato estesamente sui media (in prossimità delle feste) fino a renderlo un oggetto del desiderio infantile. Un papà (o mamma) che si rispetti non può sottrarsi alla comprensibile richiesta del figlio di comprargli proprio quel giocattolo per l’attesa ricorrenza. Tuttavia, al momento buono, il giocattolo non si trova più (è esaurito, non disponibile ecc.), cosicché il bravo genitore deve ripiegare su un articolo diverso, per non deludere il figlio. Il punto è che, dopo un po’ di tempo, il genitore si trova di nuovo nella condizione di dover comprare quel giocattolo tanto ambito, anche se ormai Natale o il giorno del compleanno sono passati, per un altro buonissimo motivo che è appunto “il principio di coerenza”: “Come posso pretendere che mio figlio impari a essere coerente, se il primo a disattenderne le aspettative sono proprio io?”.
Il secondo acquisto, del tutto superfluo, è in realtà previsto da un preciso piano di vendita – ma a noi appare motivato da un fattore del tutto interiore e personale, cioè il desiderio di apparire coerenti (ancor più che di esserlo veramente): una potente molla sociale, che può essere abilmente sfruttata per estorcere direttamente i nostri soldi o (cosa anche più preziosa) il nostro assenso. Infatti, in una società come l’attuale, dove ai bisogni fisici si affiancano quelli psicologici e culturali, proprio l’assenso diventa una risorsa scarsa, il cui accaparramento può divenire strategico.
Prendiamo il caso dell’arte contemporanea: da evento elitario e riservato a una cerchia di connoisseurs, è diventata ormai un fenomeno pubblico, che cattura l’attenzione di masse crescenti di visitatori, rivaleggiando con altre attrattive turistiche o ambientali. Il problema è che, muovendo ormai risorse ingenti, anche l’arte contemporanea e l’organizzazione che le ruota intorno (agenzie di comunicazione, ma anche di viaggio, pubblicità, sponsorizzazioni, assessorati, celebrità ecc.) iniziano a impiegare strategie di mercato come se vendessero un qualsiasi altro prodotto.
Certo, si potrebbe pensare che una buona comunicazione è alla base dell’entusiasmo con cui torme di “fruitori” affrontano estenuanti code di fronte a padiglioni d’arte inaccessibili, o acconsentono a qualunque cosa l’“artista” chieda loro di fare (stare in silenzio, inchinarsi per tre secondi, passeggiare su una passerella a occhi chiusi ecc.), spesso con molta più buona volontà degli stessi addetti ai lavori che, ormai scaltriti da decenni di frequentazioni o decisamente infastiditi dalle richieste pseudo-provocatorie della cosiddetta “arte relazionale”, volentieri girano al largo. Ma forse c’è di più.
Il famoso “tubone” di Anish Kapoor esposto alla Fabbrica del Vapore (Milano), una gigantesca installazione di acciaio a forma di tunnel lungo 57 metri, suscita interrogativi simili. La sensazione di aver perso le coordinate quando ci si addentra nel suo ventre buio è notevole, ma il problema vero sorge quando si esce. È una volta fuori dal tubo che uno si domanda: “Per provare quella sensazione era davvero necessario tutto questo?”. Ma ormai è troppo tardi: una volta arrivati fin lì, e firmato il modulo di liberatoria, non entrare è praticamente impossibile.
La visione dei visitatori costretti a “subire”, più che a fruire, l’arte dovrebbe far riflettere sulla potenza del meccanismo “di coerenza”. Nel caso del fruitore, il principio suona così: non “Io sono un intenditore, conosco l’opera di questo artista e ne so apprezzare il valore, che implica che si stia al suo gioco”, ma “Io non conosco affatto questo artista, anzi è la prima volta che mi trovo in una situazione simile, ma dato che sono venuto fin qui, per non apparire sprovveduto o peggio incoerente, sono dispostissimo a fare qualunque cosa… purché non si pensi male di me!”.
Tanta disponibilità e condiscendenza farebbero pensare a un’accresciuta sensibilità del grande pubblico nei confronti dell’arte contemporanea (verso le cui strane cerimonie fino a non molto tempo fa vigeva il totale disinteresse, se non proprio un ironico disprezzo), ma un retropensiero al “principio di coerenza” ci fa domandare se è il pubblico a essersi elevato o se invece non si è elevato solamente il livello del marketing espositivo. Un po’ come il furbo venditore di giocattoli, anche il mondo dell’arte è come se ci dicesse: “Ora che sei giunto fin qui e ti sei innalzato nel gusto, non puoi rischiare di apparire incoerente: dunque, devi acconsentire a tutto quello che il grande artista ti chiede!”.
È difficile dire come comportarsi in simili casi, anche perché indubbiamente ci sono numerose manifestazioni che valgono la coda all’entrata: sempre più spesso, però, cedendo alle lusinghe del nostro stesso “ego immaginario” (che è regolarmente un raffinato intenditore, uomo di mondo, al corrente delle tendenze, autoironico e che non si scandalizza mai), rischiamo di cadere nell’immaginario di qualcun altro.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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