Pittura lingua viva. Parola a Beatrice Meoni
Viva, morta o X? Quindicesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Beatrice Meoni (Firenze, 1960), dopo la laurea in Letterature straniere, si forma attraverso i lavori con compagnie teatrali e scenografi di rilievo affiancando fin dall’inizio il lavoro di pittrice di scena a quello di progettista per la lirica, per la prosa e per la danza. Negli ultimi anni si dedica principalmente alla pittura e all’indagine e sperimentazione sulle possibilità̀ linguistiche della pratica pittorica. Nel 2012 inizia la sua collaborazione con la galleria Cardelli & Fontana di Sarzana. Nel 2014 una sua opera entra a far parte della Collezione dei Musei di Verona attraverso il Fondo Acquisizioni ArtVerona. Tra le mostre recenti: Slittamenti e Margini, con Silvia Vendramel, galleria Passaggi Artecontemporanea, 2018, Pisa; AAVV Del tempo lineare e del tempo ciclico, a cura di C. Camoni, CAP, Carrara 2018; Painters painting painters, happening a cura di L. Boisi, Mars, Milano 2018; Lunedì o Martedì con Silvia Vendramel, Gaff Dabbasso, Milano 2018; Possibilità sospese con S. Loria, galleria Cartavetra, Firenze 2017; Oggetti solidi, a cura di M. Commone e L. Conte, Museo di Villa Croce, project Room, Genova 2017; L’inizio di una sedia a cura di M. Commone e L. Conte, Museo Guido e Anna Rocca, Chiavari 2017; Tra le cose, a cura di E. Bordignon, galleria Cardelli & Fontana, Sarzana 2016; L’attenzione è tessuto novissimo, mostra collettiva a cura di I. Mariotti, Villa Pacchiani, Santa Croce (Pisa) 2016; [dis]appunti”, mostra collettiva, a cura di A. Zanchetta, Museo Arte Contemporanea, Lissone 2015; Paper weight, residenza collettiva, ex cartiera di Vas, Dolomiti Contemporanee 2015.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
È stato un avvicinamento molto lento che si è sviluppato per gradi nel tempo e che, a un certo punto, si è palesato nella pratica. Tutto è avvenuto attraverso molti passaggi, oggi posso dire necessari, per scoprire la pratica e l’esercizio del guardare.
Hai iniziato con il teatro, sei stata pittrice di scena e hai lavorato come progettista per la prosa, la poesia e la danza. Quanto di questo background è rimasto nel tuo lavoro?
Molto, direi. La dimensione più intima dello studio è certamente diversa da quella di un laboratorio o di un palcoscenico in cui il lavoro ha un aspetto più collettivo. La fruizione dello spazio d’azione è diversa e conseguentemente anche il segno, ma l’attenzione allo sguardo, alla luce, alla composizione in relazione alla parola, al dettaglio, sono elementi che rimangono ancora molto presenti nella mia pratica.
Chi sono i tuoi maestri e gli artisti, più o meno vicini, a cui guardi?
Sicuramente, l’affresco del Cattivo Governo di Lorenzetti, Sant’Antonio abate picchiato dai diavoli del Sassetta e Le Storie di Noè di Paolo Uccello rimangono le prime opere su cui, molto piccola, ho costruito il mio immaginario. In seguito ho sempre guardato molto la pittura spostando il fuoco della mia attenzione nel tempo. Continuo a studiare, osservare, approfondire. Ci sono incontri con pittori che ti stimolano riflessioni su nuove strade: Luca Bertolo, Lorenza Boisi, Pierpaolo Campanini, Riccardo Baruzzi sono, tra gli italiani, i pittori che seguo maggiormente, ma ce ne sono moltissimi altri di cui attualmente apprezzo e stimo il lavoro. Tra gli stranieri, Magnus Von Plessen, Luc Tuymans, Mama Anderson, Richard Aldrich.
La tua pittura si muove tra astrazione e figurazione… Cosa rappresenta per te la maggiore e minore adesione al dato fenomenico e reale?
Immagini e oggetti che hanno avuto un tempo un loro valore d’uso ora veicolano un significato diverso. Non mi è chiaro quale sia il loro senso di realtà se non lo smarrimento che producono in me. Il lavoro che compio con quelle che sono delle immagini residuali del mondo fenomenologico è un lavoro molto lento, la partenza appartiene al reale ma nel corso del lavoro non so mai cosa potrà rimanere. Mi occorre un lungo lavoro di rimozione per raggiungere il punto che mi sembra essere quello di arrivo. A volte un’immagine rimane più aderente all’ordine della figurazione per la sua stessa natura, a volte invece si dilata in qualcosa che può sembrare astratto, ma che contiene la stessa matrice.
Gli oggetti appunto ‒ tazze, teiere, bicchieri ‒ sono centrali nelle tue composizioni, ma, per tua stessa ammissione, non sono mai trattati in maniera pienamente mimetica, sono spesso evocati, evanescenti, sono frammenti. Parlaci di questa tua personale metafisica del quotidiano.
La vicinanza stretta dello studio alla casa e un saggio di Francesco Orlando sono stati l’incipit del lavoro sugli oggetti comuni. Le tazze, i bicchieri che trasportavo in studio ne venivano assorbiti: è stato l’inizio di piccole composizioni in cui mescolavo oggetti a frammenti di MDF dipinti con avanzi di pittura. Queste composizioni ‒ insieme a quelle immagini residuali di un domestico borghese di vasi, brocche… ‒ sono diventate soggetti pittorici nella rappresentazione di quello smarrimento, carico di déjà-vu, in cui l’oggetto comune è proteso. Uno spazio vuoto “dove il vuoto è luogo di accadimenti per cose che non accadono mai mentre qualcuno sta guardando”.
E gli oggetti solidi che hai creato per la Project Room del museo di Villa Croce a Genova nel 2017?
Oggetti solidi è il titolo di una raccolta e del racconto omonimo di Virginia Woolf, sono “oggetti perduti nel corso di un’esistenza” suggerendo “ciò che di straordinario balugina tra le pieghe di momenti ordinari”. Il lavoro per la Project Room di Villa Croce era costituito dall’intreccio di due storie e due spazi diversi. Da una parte il museo, con le forme dell’astrattismo geometrico della collezione Ghiringhelli, dall’altra i residui della vita di una falegnameria artigianale a Chiavari con le sagome in legno di seste e dime. Una narrazione minore che si intrecciava alla collezione museale attraverso forme e frammenti.
Equilibrio e instabilità: cosa significano per te e per la tua poetica?
L’instabilità dell’equilibrio circola nelle mie composizioni sia di oggetti che pittoriche come qualcosa che muove continuamente uno stato e produce cambiamenti. È proprio quello stato di smarrimento, quel déjà-vu di cui dicevo prima, a produrre l’instabilità: non la cerco a priori, piuttosto creo le condizioni affinché si presenti e, a quel punto, la seguo, con il rischio di rovinose cadute!
Come costruisci le tue composizioni? O sono le composizioni stesse a generarsi di fronte a te?
È un declinare l’oggetto attraverso equilibri e cromatismi. Le composizioni, nella loro leggerezza solida, nascono spesso casualmente, seguendo un pensiero o una parola che mi suona in testa. Non c’è casualità nella scelta degli oggetti, talvolta sono necessari diversi giorni per arrivare alla leggerezza che desidero.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Musicali, letterarie, cinematografiche…
Leggo molto e spesso, la letteratura è fonte di immagini e di associazioni, come lo sono teatro e cinema. Un film a cui tengo molto è un omaggio al personaggio di Frank Sidebottom di Lenny Abrahamson. Tra l’altro ha una colonna sonora bellissima! Da un po’ di tempo vorrei imparare a suonare il theremin, ma non ho ancora trovato il maestro giusto.
Chi sono i “felici” del tuo recente ciclo di opere?
La felicità è un talento, dice Jasmina Reza nel suo libro Felici i Felici in cui tratteggia persone comuni alle prese con una serie di difficoltà di incontro e relazione.
Nel mio ciclo di lavori questi diventano composizioni di piccoli gruppi di statuine, le porcellane di Sèvres che una volta si trovavano nelle case, che narrano, attraverso la finzione di un amor cortese, la difficoltà del possedere il talento della felicità.
Ci sono tecniche o materiali che prediligi?
Il materiale che si adatta al mio lavoro pittorico è un derivato del legno, costituito da diversi legni di scarto. Poi ci sono il velluto e la seta, per motivi completamente diversi: immediatezza e irrevocabilità del segno.
Cosa è per te il tuo studio?
Con la pratica della pittura lo studio è diventato un luogo molto importante. È lo spazio in cui mi raccolgo, in cui cerco, è il centro del lavoro, dei miei oggetti, dei libri, direi il mio ritratto attuale.
La pittura è un fine o un mezzo?
Per me entrambe le cose.
Cosa pensi della pittura italiana contemporanea?
Seguo con interesse il lavoro di diversi pittori italiani. Essendo arrivata attraverso altre strade a questa pratica trovo molto interessanti le esperienze militanti che alcuni pittori promuovono da tempo come momenti di incontro e di scambio. Trovo che consentano di confrontarsi in maniera ampia e transgenerazionale e che offrano uno spaccato autentico di quello che accade in pittura. Purtroppo, troppo spesso, sono poco riconosciute.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
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Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
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Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
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