Parola d’ordine: resistenza. Intervista ad Alfredo Jaar
L’artista cileno, classe 1956, in mostra negli spazi milanesi della galleria Lia Rumma, descrive struttura e significato dell’esposizione. Con un occhio critico sempre rivolto al presente.
La personale che presenti alla galleria Lia Rumma di Milano si compone di tre opere, una per piano. Si tratta di lavori “esperienziali”, ognuno dei quali produce emozioni e riflessioni diverse nello spettatore. Puoi raccontarci come la mostra è stata pensata e organizzata?
La mostra è stata concepita come un crescendo. È una sequenza, 1, 2, 3. Al primo piano, nella sala principale, ho voluto oppormi alla tirannia dei grandi spazi dell’arte contemporanea e al bisogno di riempirli con oggetti. Attraverso la poesia volevo invece che questo spazio fosse riempito con un’idea, quindi qualcosa di non fisico. Si tratta di un tentativo poetico che riflette il mio stato d’animo in questi giorni bui. Dobbiamo creare nuovi modelli, ma questi nuovi modelli non sono ancora stati creati e ciò produce dentro di me una sorta di depressione…
E dunque hai realizzato appositamente per questa mostra What need is there to weep over parts of life? The whole of it calls for tears. Si tratta di una frase di Seneca scritta al neon installata al muro e che emana luce rossa. Ogni lettera è come una lacrima che sta lì, sospesa sulla parete, in un ambiente denso di fumo. Come sei arrivato a questa frase e cosa volevi comunicare con essa?
Uno dei miei scrittori preferiti è Emil Cioran. Lo ammiro profondamente, torno sempre da lui. È “il poeta del pessimismo”, e infatti è incredibilmente pessimista. Anche io, a modo mio, sono pessimista, ma quando leggi Cioran sembra che voglia suicidarsi. È così deprimente che, in un certo senso, vi trovo speranza. Attraverso di lui ho scoperto lo stoicismo e Seneca, e in Seneca ho scoperto questa bellissima frase che è alla base del lavoro del piano terra.
Che cosa ti interessa dello stoicismo?
Nello stoicismo c’è la convinzione che la vita sia precaria e ciò ci insegna a concentrarci su ciò che è rilevante. Non dovremmo perdere tempo con il milione di cose inutili che ci circondano, piuttosto dovremmo concentrarci sulla bellezza della vita, prenderla molto più sul serio. Ho selezionato quindi questa poesia perché parla del mio stato d’animo attuale, perché riflette e descrive un occhio nostalgico, malinconico e triste che guarda lo stato del mondo. Che bisogno c’è di piangere solo su una parte della vita? Non dobbiamo concentrarci sulle piccole cose, ma dobbiamo avere una visione di insieme dell’esistenza: questo è quello che ho cercato di comunicare al pubblico.
Ci racconti anche della sua realizzazione estetica?
Non volevo che l’opera fosse di lettura immediata. Ho creato una distanza enorme tra le lettere, così lo spettatore è costretto a leggere lentamente e cercare di capire il senso del testo. Inoltre bisogna avvicinarcisi perché l’ambiente è pieno di nebbia. Ho cercato cioè di trasformare l’intero spazio in un momento di incertezza: non sai dove camminare, non vedi bene, l’unica fonte di luce è quella del neon. Sei in una specie di acquario rosso, che è uno spazio mentale, e poi lentamente scopri questo magnifico testo.
Seneca è stato un filosofo tristemente conosciuto per i suoi influssi sulla politica che lo hanno infine portato al suicidio. Una mente acuta che ha cercato di cambiare il mondo nel quale era immerso e del quale è rimasto vittima. Oggi che i filosofi non rivestono più un ruolo così influente nella nostra società, gli artisti visivi si servono spesso della filosofia per elaborare nuovi modelli di conoscenza e, in alcuni casi, se ne servono per contrastare la politica. Questo tipo di ricerca è sempre stato un settore di nicchia, ma, dopo le elezioni di Trump, si è amplificato e diffuso in modo esponenziale: più che in qualsiasi altro settore, gli artisti visivi si sono armati di contenuti politici e il sistema (gallerie, musei e spazi indipendenti) li ha sostenuti. Secondo te il ruolo dell’artista è cambiato in questo momento storico?
Nonostante tutte le problematiche presenti nel mondo dell’arte contemporanea, è vero che il nostro settore è l’ultimo spazio di libertà rimasto. È il nostro capitale più prezioso. Feci un lavoro al neon che diceva proprio questo: cultura = capitale. Quindi è in questi spazi di libertà, di arte e cultura che possiamo creare nuovi modelli, seguendo vie differenti, e in opposizione all’attuale corrente di neo-fascismo che sta dilagando non solo negli Stati Uniti. Ogni giorno sentiamo di Paesi dove sono stati eletti candidati neo-fascisti. Dunque, noi siamo dei privilegiati perché viviamo in uno spazio nel quale possiamo resistere, fare opposizione e che ci protegge, nonostante in certi Paesi alcuni artisti stiano iniziando a perdere la loro libertà. Non c’è mai stata un’invasione così ampia del nostro spazio, mentale, psicologico e fisico. Idee che pensavamo morte con la storia stanno tornando a livello globale. Purtroppo però non siamo ancora riusciti a trovare delle alternative concrete a questo sistema politico e ciò mi fa sentire impotente. Forse l’opera al piano terra è il mio primo tentativo per descrivere con estrema onestà lo stato di incertezza che provo e di condividerlo con gli altri. Temo che siamo in una situazione più grande di noi.
Cosa pensi della marcia delle donne a Washington e del movimento che ne è seguito, appoggiato, tra l’altro, da tutto il mondo dell’arte? Può essere questa l’alternativa per il futuro?
Vedremo se questo movimento avrà seguito dopo le elezioni di metà mandato e in quelle presidenziali. È vero che c’è e si avverte un cambiamento, ma bisogna vedere se questo poi si trasforma in potere politico. È difficile dirlo adesso, anche perché i media, negli Stati Uniti come in tutto il mondo, esercitano quello che è stato definito “journalism of fascination”. Nutrono questi mostri, li creano. Rispetto agli altri quindici candidati, hanno dato a Trump il 1500% di spazio in più sui siti internet, in TV e sui giornali. E continuano a farlo perché tutti sono affascinati dalla follia di questo individuo e quindi vendono più giornali. Lo stesso responsabile della CNN ha detto: “Sì, lo confesso, stiamo facendo più soldi che mai grazie a Trump”. Però poi quello che conta sono i voti… anche per il “movimento delle donne”. Tutto ciò che accade a livello astratto poi lentamente può penetrare nel mondo reale, se si traduce in potere politico.
Non credi che anche il mondo dell’arte, in questo momento di divulgazione e di sostegno all’arte impegnata politicamente, stia correndo il rischio di cadere nella stessa situazione che descrivi essere dei giornali?
Sì, questo è tristemente vero e possibile. Quelli di noi che hanno sempre creduto che l’arte e la politica siano la stessa cosa adesso vedono persone che non vogliono perdere questo treno. È una sorta di azione opportunistica, ma non ne conosciamo gli effetti. Tutto ciò potrebbe anche creare delle ripercussioni inaspettate o positive. Lo vedremo.
Tornando ai lavori che presenti da Lia Rumma, salendo al primo piano troviamo Lament of the Images, l’opera che dà anche il titolo alla mostra. Due tavoli luminosi per fotografia analogica sono disposti in modo speculare uno sopra l’altro, a un centimetro di distanza. La stanza è buia, tagliata dalla linea di luce e ombra prodotta dai tavoli, come un orizzonte che percorre tutte le pareti della stanza. Ogni tre minuti il tavolo che sta sopra si alza, irradiando la sua luce nello spazio. Ci racconti il significato di quest’opera, riproposta qui dopo tanti anni dalla sua creazione?
Dunque, come dicevo prima, la mostra è un crescendo: il piano terra è un lamento che si concentra sulla bellezza della vita e del mondo, mentre al primo piano ho voluto mettere un lavoro che ho creato nel 2002 come reazione alle notizie false e alla manipolazione delle immagini da parte dei media. Era il periodo durante il quale prendeva piede la fotografia digitale e a me sembrava importante tornare alla realtà. Ho usato spesso i tavoli luminosi nei miei lavori degli Anni Ottanta, ma qui hanno un significato diverso. Sono vuoti. Solo quando uno dei tavoli si alza ti rendi conto davvero che sono tavoli luminosi, vuoti, senza immagini da mostrare… E cosa produce questa luce? Illumina: illumina te, illumina me, cosicché io posso vederti e tu puoi vedermi. Ecco, ho riproposto questa opera oggi perché la sento così viva, così necessaria… Volevo dire: “Guardiamoci, parliamoci, non comunichiamo le nostre sensazioni solo tramite i messaggi o il telefono”. È una chiamata al reale. A fare tabula rasa e sentirsi liberi.
Quindi il piano terra della mostra è stato realizzato per creare un momento introspettivo, personale e intimo, mentre al primo piano ci si scopre con l’altro e la relazione emotiva che ne consegue. E poi, cosa accade al secondo piano?
Qui mi addentro nella realtà e racconto la storia di un contadino ucciso dalle guardie di Somoza, in Nicaragua. Ognuna delle foto scattate dal fotogiornalista olandese Koen Wessing rappresenta un racconto unico, incredibile. In particolare, quella delle due figlie del contadino, ritratte poco dopo aver appreso la notizia, esprime tutto il dramma della perdita. Poiché, quando affrontiamo le tragedie nel mondo, non si dovrebbe rimanere nell’astratto, come per esempio quando riportiamo tutto ai numeri… “120 persone morte in una nave nel Mediterraneo”… Bisogna ridurre la scala astratta dei numeri all’interno di una storia, a nomi e facce da conoscere e davanti ai quali riconosciamo l’umanità. Solo così diventiamo anche noi umani nel percepire le notizie, sentiamo empatia. E questo è il terzo esercizio della mostra.
‒ Veronica Santi
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