Macro Asilo. L’Italia è un Paese per vecchi
Una visita al Macro Asilo di Roma restituisce un panorama ben diverso da quello annunciato negli intenti del progetto. Lasciando poco spazio alla logica dell’innovazione.
Il 30 settembre 2018 è stato inaugurato il progetto sperimentale Macro Asilo, in via Nizza, a Roma. A pochi mesi dal vernissage, però, la domanda che sorge spontanea è: le attese sono state soddisfatte?
L’idea del curatore e ideatore del progetto Giorgio de Finis è quella di trasformare l’intero polo museale in un vero e proprio organismo vivente, dal profilo quasi umano, definendolo appunto “ospitale”. Sottotitolo del progetto è infatti “il museo si fa città”, proprio per marcare l’idea di una logica di costante apertura e partecipazione della città e del pubblico. De Finis vuole rinnovare la concezione pubblicamente condivisa di istituzione museale e il suo intento è quello di tessere una relazione non solo nuova, ma anche funzionale tra il museo e la città stessa. L’obiettivo è, infatti, un’indagine sulla funzione civica dell’istituzione che oggi si adopera per produrre un sapere fruibile a tutti attraverso l’arte.
Ciò a cui i curatori hanno sempre aspirato da quando l’idea di Macro Asilo ha iniziato a prendere vita è stato poter creare un polo complementare al Maxxi e alla Galleria Nazionale, che mettesse a disposizione dei cittadini uno spettro ricco di punti di vista.
Tutte le promesse sono state mantenute? È stato effettivamente il Macro Asilo quel contenitore di un’arte alla portata di tutti?
Il progetto parte certamente da un’idea innovativa e di revisione e rivalutazione di un polo che da anni Roma non aveva saputo più sfruttare. Si ripensano gli spazi, non solo i concetti, e si tenta di creare un ambiente che abbracci anche visivamente l’ideologia centrale del progetto.
Purtroppo, però, entrando nel museo, i nostalgici vagheggiano ancora il passato e chi lo vede per la prima volta si sente smarrito. La collezione permanente è stata, probabilmente, per la maggior parte rinchiusa nei magazzini e le opere esposte lasciano un enorme senso di vuoto nella sala principale. Anche le didascalie, poste tutte insieme, sole, nel muro a specchio delle opere lasciano allo spettatore un senso di smarrimento. Insomma, per chi ha sempre conosciuto il Macro, è un duro colpo da accettare e per chi non l’ha mai conosciuto non è certamente quel posto di rifermento al quale tornare.
AMBIENTI D’ARTISTA
Per coloro che non perdono le speranze e decidono di avventurarsi nelle altre stanze del museo il senso di vuoto che li ha accolti all’ingresso non li abbandona per tutto il percorso di mostra.
Le altre due innovazioni proposte dal progetto Macro Asilo consistono negli atelier d’artista e negli “ambienti” d’artista.
I primi si costituiscono nel secondo piano del polo e dovrebbero essere delle vere e proprie “stanze opera” previste per ospitare performance, opere e installazioni. Non è però possibile a tutti i progetti accedervi ‒ al contrario di come viene scritto ‒, poiché non si accettano determinate selezioni di opere, come le mostre collettive.
Momentaneamente nel primo ambiente troviamo Navid Azimi Sajadi, che espone il suo The Bridge Project. Il progetto è essenzialmente uno studio sul corpo che si riflette come l’incarnazione di una geometria speculativa, la quale prende la forma di un ponte. Un ponte formato da molte arcate. In ogni figura si fondono vari oggetti religiosi, simboli e riferimenti storici della nostra società contemporanea. In sintesi, questo ponte è una sfilata di idoli femminili. Una parata di immagini di culto del nostro tempo, che celebra e annuncia la loro coesistenza apocalittica. Un progetto certamente interessante, ma si lega a un qualche tema che verrà ripreso negli altri ambienti? È coerente con un calendario di eventi studiati ad hoc?
La risposta è no. Non serve essere esperti d’arte o avere esperienze di direzione artistica per accorgersene, è sufficiente che lo spettatore proceda alla visita dell’ambiente due perché non riscontri alcun tipo di coerenza. Infatti qui troviamo il “big show” di The Great Cuppone and the Divine Jack. Meglio noti come il duo del circo dell’ossimoro, con dei veri e propri numeri che si susseguiranno per quattro settimane.
Forse il circo dell’ossimoro è l’attrazione, termine quanto mai adatto, più coerente con il cambiamento che il Macro ha subito nel 2018. Un contenitore storico di cultura si svuota completamente dei suoi onori e oneri e diventa un luogo cui chiunque abbia un’idea ritenuta innovativa, ma non coerente con un percorso tematico, possa accedere. Si crede che l’esigenza di un fil rouge tra gli artisti presentati sia vecchia e ridondante, ma l’innovazione nell’arte non è fatta solo di eccentricità. Innovare significa presentare qualcosa di nuovo, ma di cui ne sia comprensibile il senso ai più.
DIVARIO GENERAZIONALE
Al terzo piano troviamo gli atelier letteralmente “abitati” dagli artisti per un periodo limitato, entro il quale dovranno produrre opere da esporre al termine del loro soggiorno. Gli artisti vivono nello spazio durante tutta la giornata e lì si mettono a loro agio per produrre. La selezione di artisti che settimanalmente si è interfacciata con il Macro Asilo, però, al contrario delle aspettative generali, non è rappresentata da gruppi di artisti emergenti o giovani appena usciti dall’accademia. Gli artisti che hanno risposto a questa open call o, forse meglio, che sono stati selezionati dalla commissione curatoriale, non rappresentano certamente la fascia d’età che ci si aspetterebbe in un museo d’arte contemporanea che vuole emergere per le sue idee innovative e fare la differenza nel tessuto cittadino circostante.
Il divario generazionale è forte. Il Macro Asilo, dove “Asilo” non è legato solo al senso di ospitalità, perde completamente l’altro aspetto, che è però ben chiaro negli obiettivi del progetto: quello educativo e di apertura alla nostra generazione contemporanea.
Al momento della nostra visita, nel primo atelier il Macro Asilo proponeva Gaetano Zampogna, classe 1946. Nel secondo atelier Elio Varuna, classe 1975. Nel terzo atelier Omino71, classe 1971. E, infine, nell’ultimo atelier, Mauro Molle, classe 1976.
Neanche un artista emergente. Nemmeno un ragazzo appena uscito dall’accademia. Non viene data la possibilità a un giovane, che ancora ha tutto da dimostrare, di sfruttare un vero atelier e di esporre in un contesto come il Macro.
Sembra quasi che il direttore artistico, Giorgio de Finis, non sia pronto a rischiare, non sia pronto ad accettare la sfida di un artista emergente nei suoi atelier, ma che preferisca andare sul sicuro. Allora l’accoglienza dov’è? La lettura del nuovo progetto sotto diversi punti di vista, che gli artisti ci avrebbero proposto? E soprattutto, dov’è il confronto generazionale e l’opportunità per coloro che hanno passione, ma non i mezzi per esprimersi?
Un’istituzione come il Macro, che è stata co-protagonista della storia didattica della Capitale, purtroppo, a oggi, non sembra pronta a lasciare una memoria forte e decisa di sé, almeno non nei prossimi quindici mesi.
‒ Beatrice Bandinelli
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