In morte di Enrico Crispolti. Il ricordo di Renato Barilli
Il critico d’arte Renato Barilli ricorda il collega Enrico Crispolti, scomparso a Roma l’8 dicembre 2018.
La scomparsa di Crispolti mi fa ripetere una espressione passibile di essere sospettata di retorica, ma purtroppo vera nel suo caso, come in quello di altri amici e compagni di via che in questo anno disastroso ci hanno lasciato: con loro siamo noi stessi, e io in particolare, a morire almeno in parte, a sentire che la campana suona sempre più vicino, fino ad avvertirne alle spalle il gelido soffio. Enrico Crispolti è stato il principale animatore degli anni ’50, colui che con la fresca energia dei suoi vent’anni ha colto a volo, rappresentato, testimoniato l’enorme rivoluzione che in quel momento era in atto, come risultava da Michel Tapié e dal suo prezioso Art autre, ma non altrettanto bene dai critici allora maggiormente reputati presso di noi, come Giulio Carlo Argan, ancora alle prese coi rigori del Bauhaus e simili; o Cesare Brandi, affezionato alle eleganze di certo postcubismo; e anche Maurizio Calvesi in quel momento navigava sulla loro scorta. Caso mai, a rompere gli indugi a Bologna si alzava la voce di Francesco Arcangeli, che però si trascinava dietro il retaggio del naturalismo del suo maestro Roberto Longhi, mentre Enrico era libero, disinibito, non trattenuto da nessuna eredità vincolante. Ma è anche vero che Bologna allora era in pole position per la nascita della rivista “il Verri”, in cui Luciano Anceschi aveva scavalcato risolutamente gli anni ’30 della sua formazione e “aperto” a tutte le novità del tempo.
L’INFORMALE
Io ne approfittavo per condurre le prime scoperte nel territorio dell’Informale, puntando soprattutto su Dubuffet, mentre Enrico inseriva nelle colonne di quella rivista le presenze forti di Fontana, Burri, Pollock. Per fortuna in quel momento non ci fu tra noi né gelosia né rivalità, anche perché Crispolti svolgeva con molto fair play un ruolo di fratello maggiore, prodigo di consigli, con la posizione di forza che gli veniva dall’abitare a Roma capitale. Io grazie a lui fui gettato letteralmente in braccio a Leoncillo, e anche Filiberto Menna e Alberto Boatto poterono approfittare, in quel finale dei ’50, del suo pieno appoggio. Forse in seguito il nostro “amico geniale” fu alquanto condizionato da un energico ritorno di fiamma da parte di Calvesi, che fu pronto a sintonizzarsi sulle svolte statunitensi dei ’60, tra New Dada e Pop Art, mentre il più giovane concorrente, forse proprio per ripicca, fu alquanto restio a imbracciare quella pista, rispettando un decorso più tranquillo che dall’Informale poteva condurre a certa “nuova figurazione”, ma nella versione ingegnosa ed eccentrica di un Sergio Vacchi. D’altra parte accanto al critico militante in Enrico stava crescendo lo storico, inappuntabile, per esempio in un lungo lavoro di scavo attorno al cosiddetto secondo Futurismo, di cui ha riportato alla luce i tanti protagonisti attivi nei vari centri del nostro Paese. E non si può neppure ignorare l’enorme attività che lo ha portato a redigere i cataloghi di quelle colonne portanti di cui era stato, proprio nel suo primo tempo, il pronto e acuto annunciatore. Quindi ecco l’impresa di raccogliere “tutto” Fontana, comprese quelle varianti barocche che una critica troppo devota ai buchi ai tagli, succube di una visione stereotipata dell’artista, tenderebbe a trascurare. E non dimentichiamo che egli è stato pure il catalogatore di Guttuso, quasi a sancire la riconciliazione tra i due corni delle avanguardie che dal dopoguerra si sono date battaglia nel nostro Paese, e in definitiva quello è stato anche un ritrovarsi con Calvesi, pure lui disposto a riconoscere i meriti imprescindibili di colui che pure a lungo era sembrato l’avversario da combattere.
I CATALOGHI
Ovviamente Enrico è stato a casa sua nel produrre anche un coscienzioso catalogo dell’opera pittorica di Mattia Moreni, di cui una critica troppo conformista tende a dimenticarsi, e voglio sperare che sia riuscito a portare a termine pure il catalogo di Francesco Somaini, un altro dei nostri grandi che mi aveva indotto a frequentare. Infine, nel curriculum ci sta pure un catalogo monumentale in tre volumi dedicato a Vacchi, col che si chiude il cerchio virtuoso, Crispolti conferma una lunga fedeltà a uno dei suoi primi artisti, cavallo impetuoso e di razza da cui non è mai sceso. E proprio nel nome di Vacchi la città di Bologna, che pure a Enrico aveva aperto le porte in epoca giovanile, ha inflitto uno smacco di cui non si capiscono né l’autore né l’intento. Infatti il calendario del Palazzo Fava, nel quadro di Genus Bononiae, ha realizzato una grande retrospettiva di Vacchi, con l’appoggio dei suoi parenti capitani d’industria, e ovviamente la persona più indicata a farsi curatrice della mostra altri non era se non Crispolti, ma la sua candidatura è stata respinta, così impedendogli di mettere l’ultima tessera a un ampio e maestoso mosaico.
–Renato Barilli
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