Pittura lingua viva. Parola a Romina Bassu
Viva, morta o X? Diciassettesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Romina Bassu nasce a Roma nel 1982, dove vive e lavora. Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e la Facultad de Bellas Artes di Siviglia. Approfondisce i suoi studi viaggiando fra Inghilterra, Germania e Spagna.
Tra le ultime partecipazioni a mostre, premi e fiere: 19esimo Premio Cairo, Palazzo Reale, Milano, 2018; Artissima, Torino, 2018; ArtVerona, Verona, 2018; As Velasca | Injury Time, Edicola Radetzky, Milano, 2018; Miart, Milano, 2018; Arte Fiera, Bologna, 2018; Male Gaze, Studio Sales di Norberto Ruggeri, Roma, 2017; Campionario Analogico, Burning Giraffe Art Gallery, Torino, 2017; Young & Forever Young, Galleria Anna Marra Contemporanea, Roma, 2017; Residenza Artistica Bocs Art, Cosenza, 2017; Dialogica. Atemporali Connessioni Contemporanee, Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, Siracusa, 2017; Promises, Galleria Marcolini, Forlì, 2017; Art for art’s sake Guidi, Kühlhaus di Kreuzberg, Berlino, 2017; Premio Combat, Museo Civico G. Fattori ex Granai di Villa Mimbelli | Museo di Storia Naturale di Livorno, 2017; Social Utopia / Studi aperti Festival, XII edizione, Museo Tornielli, Ameno, 2016; Carte Blanche, Galerie Olivier Nouvellet, Parigi, 2016; Group psychology (and the analysis of the ego), Galleria Marcolini, Forlì, 2015; Book Art Project, Fondazione Pastificio Cerere, Roma, 2015; Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee 2015, Villa Brandolini, Treviso, 2015.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
Ho dimostrato interesse per il disegno e per la pittura sin da piccola, è stato qualcosa di naturale, pur essendo cresciuta in un ambiente familiare molto lontano dall’arte.
Ricordo che la sensazione di evasione dal contesto reale era la condizione che preferivo, una pratica che mi portava altrove. Poi la crescente curiosità mi ha portato a fare un percorso di studi che approfondisse le tecniche pittoriche.
Quali sono i tuoi maestri e gli artisti, più o meno vicini, cui guardi?
Sono stata influenzata da artisti molto diversi tra loro, mi hanno ispirato nei contenuti e nella forma in maniera piuttosto trasversale e non solo in pittura.
Tony Oursler, ad esempio, mi affascina per la sua modalità di argomentare le malattie mentali e il consumismo. Sul tema della memoria collettiva considero Doris Salcedo un punto di riferimento, sull’identità femminile Agnès Varda insieme a Ana Mendieta e Annette Messager.
Ai tempi dell’Accademia sono stata ossessionata dall’uso del colore di Giorgio Morandi, da come Joaquín Sorolla riusciva a rendere la luce e dall’inquietudine di Goya.
Tra i pittori contemporanei posso citare Kaye Donachie, Michaël Borremans, Wilhelm Sasnal, Gerhard Richter, Damien Meade, Marlene Dumas.
Cosa rappresenta per te l’archivio, e, nello specifico, l’archivio fotografico?
Sono sempre stata attratta dalle foto in bianco e nero e dalla testimonianza “fantasmagorica” che rappresentano. Rovistare da un rigattiere o tra gli album di famiglia mi trasporta automaticamente verso una narrazione nostalgica.
Parlaci del tuo progetto Archivio anonimo. Quando lo hai avviato? In che modalità lo hai sviluppato e portato avanti?
Questo progetto nasce a Berlino nel 2010 per poi proseguire fino al 2013 in Spagna.
I protagonisti di Archivio anonimo sono personaggi comuni e sconosciuti: attraverso la rielaborazione, alcune foto di famiglia ritrovate in un cassetto, vecchie glorie del cinema e oggetti démodé da rotocalco Anni Cinquanta diventano una lente attraverso cui mi è concesso intravedere il presente attraverso il passato. È un’interpretazione che attribuisce a immagini comuni una funzione di “reliquie” di vite comuni, incentrandosi sulla loro capacità di raccontarmi le loro storie.
Si è trattato di un progetto fondamentale nel mio percorso, perché proprio a partire dall’osservazione minuziosa di quelle foto il mio sguardo si è focalizzato progressivamente sui personaggi femminili. Sono passata dalle immagini a carattere familiare a fotografie pubblicitarie e di consumo. Le espressioni dei volti, il linguaggio del corpo, gli sguardi delle donne di quell’epoca mi hanno pian piano rivelato quanta tensione ci fosse in quel momento storico nel ricoprire il ruolo di madre, sposa, figlia o casalinga.
Oltre alle immagini trovate di varia natura, quali altre sono le fonti per le tue opere? Letterarie, musicali, cinematografiche…
Tutto il mio lavoro pittorico viene influenzato in particolar modo dalle suggestioni cinematografiche di Ingmar Bergman, Chantal Akerman, Alfred Hitchcock, Antonio Pietrangeli, François Truffaut, Agnès Varda, Luchino Visconti, Pedro Almodóvar.
Tra i libri più significativi per il mio percorso ricordo principalmente Camera Chiara di Roland Barthes: il concetto che descrive l’essere fotografati come una micro-esperienza della morte, nella quale si diventa spettri, mi introduceva a una particolare visione dell’archivio storico.
Quando lei era buona di Philip Roth mi ha colpito moltissimo, essendo una tragedia esemplare della ricerca della propria integrità femminile. Non credo invece che la musica abbia influenzato direttamente le mie opere, anche se non posso farne a meno per dipingere. Ultimamente in studio ascolto spesso Brian Eno.
Sguardo maschile, sguardo femminile… Cosa cambia tra i due? Come restituirli in un dipinto?
La mia ultima esposizione personale, presentata nello Studio Sales di Norberto Ruggeri, a cura di Manrica Rotili, riflette sul modello femminile proposto dai mass media agli albori del consumismo televisivo. Quella rappresentazione della donna che alberga nell’immaginario collettivo è stata, nella storia, il risultato di uno sguardo esclusivamente maschile dietro la cinepresa: il cosiddetto male gaze. Questa serie di lavori esamina proprio quello sguardo mostrando, spesso in chiave sarcastica, il peso e la difficoltà di una funzione sociale fortemente improntata all’ornamentalità. A partire dalle prime pubblicità, dall’avvento della televisione e prima ancora del cinema, questo filtro sotteso alle immagini ha finito per costituire un modello di riferimento per le generazioni successive e una profonda oggettivazione della donna nella cultura di massa, abituando lo stesso universo femminile a osservarsi con occhi maschili. I dipinti descrivono mogli e madri felici, casalinghe perfette, pin-up intente a mantenere un sorriso smagliante, immagini stereotipate e alterate, tra il bon ton signorile e lo stile della candy girl.
Come un ritratto può essere “politico”?
Lavoro principalmente su soggetti stereotipati, questo carattere universale dei miei ritratti rievoca familiarità con qualcosa che ci appartiene. Quella riconoscibilità ci aiuta a identificare alcuni comportamenti collettivi e ci ricorda gli schemi imposti da un’educazione proposta come ineludibile.
Decostruisco l’aspetto confortevole dell’immaginario femminile inserendo particolari che nel ritratto esprimono inquietudine. Mostrando la vulnerabilità nascosta dietro la perfezione consumistica dei corpi, esprimo un pensiero critico, per questo un mio ritratto assume una valenza politica. Quella stessa vulnerabilità restituisce al volto l’opportunità di tornare a essere luogo di incontro.
Quanto ancora persistono determinati stereotipi di genere? In che momento hai sentito l’urgenza di soffermarti su di essi? E nel campo dell’arte come è la situazione?
Credo che da un lato sia un buon momento storico, avverto molta sensibilità sulla questione di genere, ma l’insediarsi di alcune politiche reazionarie rende vano il tentativo di un’educazione che vuole scardinare una certa cultura sessista, almeno in Italia.
Non ho preso immediatamente coscienza del potenziale che aveva il mio lavoro, ho cercato di rappresentare un certo stato d’animo per poi accorgermi che stavo raccontando un andamento sociale. Nel campo dell’arte avverto molta volontà di dare voce al dibattito sulla questione femminile che si intreccia direttamente con la causa Lgbt.
Come raccontavi prima, attingi da un immaginario tipico degli Anni Cinquanta. Memoria personale e memoria collettiva, micro e macro storia, cosa rappresentano per te? Come dare forma al ricordo?
Per anni ho collezionato immagini dai cui prendo spunto per i miei dipinti.
L’immaginario iconografico che scelgo per la mia ricerca è quello degli Anni Cinquanta: ovvero l’epoca del boom economico, del mondo capitalista, della morale borghese… Una versione primitiva del mondo attuale. Attraverso quei personaggi collocati in quell’epoca, cerco di individuare la storia culturale, che, al di là della nostra volontà, sopravvive in noi in forma di eredità trasmessa dalla memoria sociale. Agisco come un collezionista, che indaga i cimeli della propria vita e di altre persone, sovrapponendo personale ed estraneo in una sorta di “archeologia del ricordo”.
Cosa vuoi trasmettere attraverso le tue opere? Mi sembra che, nonostante contengano messaggi anche molto forti, volutamente tu le mantenga sospese in una certa ambiguità. Realtà, sogno e distopia convivono e si confondono…
Le mie opere non sempre hanno una logica lineare e si prestano frequentemente a una lettura labirintica. Ci si ritrova a codificare doppi sensi tra l’immagine e il titolo del quadro, superandone il significato immediato. Preferisco creare atmosfere e suggestioni, senza fornire risposte chiare.
Anche i volti che rappresenti sono indefiniti e indefinibili. Anonimi, cancellati, ridipinti… Perché questo trattamento?
A volte cancello i dettagli di un volto con il gesto pittorico, imitando l’azione del tempo, che trasforma individui dotati di una propria identità in personaggi nostalgici. Un soggetto privato dei suoi connotati non solo diventa anonimo, ma si trasforma in un personaggio simbolico.
Chi sono i soggetti delle tue opere? Esistono realmente?
Ultimamente, oltre ad attingere da foto di archivio, vesto e pettino alcune modelle sempre rievocando un’atmosfera retrò, per poi metterle in posa e avere una serie di scatti che mi interessano. Tutte le figure che dipingo sono mirate a descrivere un carattere standardizzato, ostentano una massificazione che aliena l’unicità del singolo.
Negli ultimi soggetti il volto è nascosto dalla posa e la rappresentazione del corpo esplora quegli aspetti di una nevrosi nascosta, ma che è sotto gli occhi di tutti.
Un dato importante rivela che, rispetto a quello maschile, il sesso femminile è molto più vulnerabile, soprattutto rispetto ad alcune patologie: ansia, depressione e uso di sostanze stupefacenti. Questa condizione non è una conseguenza biologica, ma è dettata dalla pressione sociale.
Dal quasi monocromo al colore… Come passi dal privilegiare uno o l’altro nei tuoi lavori?
Con gli acquerelli prediligo il bianco e nero, la mediazione pittorica imita il documento fotografico per mantenere saldo il carattere archivistico delle immagini. Mentre per gli acrilici mi ispiro a colori che rimandano una sensazione di calma, mi piace il contrasto che le tonalità pastello hanno con un contenuto dissonante o inquietante.
La tua è una pittura veloce o lenta?
Per molti anni ho dipinto a olio, poi avendo delle difficoltà nel respirare la trementina e altri medium pittorici ho deciso di passare all’acrilico. Questo passaggio mi ha obbligato a gestire il colore con molta velocità gestuale per mantenere la freschezza, dato che rispetto all’olio l’acrilico si asciuga molto prima e non permette la scorrevolezza della pennellata.
In seguito a questa casualità mi sono ritrovata a preferire una soluzione pittorica più sintetica.
Perché la pittura come mezzo espressivo d’elezione oggi?
Non mi sono mai posta questo quesito, la scelta di elezione del mezzo pittorico è sempre stata molto naturale. Non credo che la contemporaneità di un’opera sia definita dallo strumento, ma dalle idee.
Cosa pensi della pittura italiana contemporanea?
È un momento in cui l’attenzione internazionale nei confronti della pittura è molto forte, per anni siamo stati spettatori della sua annunciata “morte” a fasi alterne. Anche in Italia sembra sia tornato questo rinnovato interesse, soprattutto nei confronti del figurativo.
‒ Damiano Gullì
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