Giovannino Guareschi, cinquant’anni dopo

Cinquanta anni fa, il 22 luglio, se ne andava Giovannino Guareschi, uno dei più scomodi scrittori italiani del Novecento, ma probabilmente anche il più libero e coraggioso. Vogliamo però ricordarlo adesso, in dicembre, per riportare alla memoria di chi vorrà leggere quel Natale del ’54, che Guareschi festeggiò dietro le sbarre. Ma da uomo libero.

Il Grande Fiume porta con sé storie di gente fiera del proprio lavoro, che ha familiarità con quella natura bella e aspra, con gli animali compagni di fatica. Storie di gente che ha la politica nel sangue. Raccontandole, Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1908 ‒ Cervia, 1968) crea un mondo piccolo eppure grande, giunge al cuore di Strapaese e ne estrapola l’anima e la storia, fatte di piccoli episodi incastrati come le tessere di un mosaico, appena sfiorate dal tempo che scorre placido come il Po sotto l’implacabile afa agostana. A rileggere le descrizioni della Bassa di Guareschi non si può non pensare agli scatti di Luigi Ghirri o Pietro Donzelli, alle prose di Cesare Zavattini (che fu suo caporedattore alla Gazzetta di Parma negli Anni Trenta), e al reportage di Paul Strand a Luzzara (in collaborazione con lo scrittore-sceneggiatore). Ma soprattutto, sale alla mente la larga, potente risata di quel popolo di buona volontà, il retrogusto amarognolo del lambrusco che accompagna le immancabili tagliatelle; quelle tavole familiari dove si apprende la tradizione e si è parte di quell’ordine voluto da Dio e rispettato dagli uomini. Calore familiare che purtroppo i cambiamenti sociali avrebbero di lì a poco disperso, come lo stesso Guareschi notò più volte.

SCRITTORE E GIORNALISTA

Nell’ambito delle cruciali elezioni del 1948, il contributo di Guareschi per lasciare l’Italia fuori dall’influenza sovietica fu di estrema importanza. Certamente non vinse da solo la sfida, ma attraverso le sue vignette su Candido riuscì a far breccia in larga parte dell’opinione pubblica. Ma anche dopo quell’aprile, le sue vignette rimasero piccoli capolavori di pensiero civile, inneggianti alla coscienza personale e al pensiero critico. Il suo anticomunismo andava contro un sistema che distruggeva la spiritualità e la libertà. Ma andava anche contro il modernismo, in cui leggeva i medesimi pericoli. Che Guareschi fosse un artista schierato a destra? No, o almeno non lo era nel senso negativo del termine. Non fu schierato per un partito (nemmeno per la DC), ma soltanto per le sue idee, per le quali pagò sempre di persona, attaccato anche da chi, un tempo, aveva trovato utile il suo pensiero.

Pietro Donzelli, Delta del Po. Terra senz’ombra. Valle Pega, venditrice ambulante, 1954 © Renate Siebenhaar, Estate Pietro Donzelli, Frankfurt a M.

Pietro Donzelli, Delta del Po. Terra senz’ombra. Valle Pega, venditrice ambulante, 1954 © Renate Siebenhaar, Estate Pietro Donzelli, Frankfurt a M.

DIVINO QUOTIDIANO

L’anticomunismo di Guareschi nasceva dall’impossibilità di questa dottrina politica di conciliarsi con la fede cattolica, pilastro della formazione etica e culturale dello scrittore emiliano. Che misurava la grandezza di Dio non solo dalla vastità del Creato, ma anche e soprattutto dal sacrificio di Cristo e dalla sua vittoria sulla morte. Con una prospettiva leggermente diversa, forse più amara, il pittore James Ensor immortala Gesù Cristo che entra a Bruxelles, nel 1899. Una pittura che testimonia la verità del Cristo risorto, la sua costante presenza fra gli uomini; in mezzo a quella folla che giudica, critica, fa baldoria, sgomita, fornica… Cristo incede maestoso, si annuncia e attende. È il medesimo “miracolo” che Guareschi compie in Mondo piccolo, dove Don Camillo parla quotidianamente con il Crocifisso, da cui riceve la forza per portare avanti le sue battaglie contro quell’inaridimento spirituale che la società del benessere economico si portava inesorabilmente dietro. Disagi sociali e sperequazioni furono la scintilla per le violenze del laicissimo Sessantotto, ben determinato a fare tabula rasa dei vecchi valori. Eppure, ad avvertire gli stessi pericoli di Guareschi fu anche Francesco Guccini, cantautore galantuomo che, nell’ultima strofa della celebre Dio è morto, già nel 1966 rigetta il nuovo corso e sembra avvertire la necessità di una barriera contro il relativismo che tanta confusione aveva portato con sé: “Ma penso // che questa mia generazione è preparata // a un mondo nuovo e a una speranza appena nata // (…) perché noi tutti ormai sappiamo // che se dio muore è per tre giorni e poi risorge // in ciò che noi crediamo, Dio è risorto”.

SOTTO IL SELCIATO, SARTRE

In quel 1968 che Guareschi sentiva come lo spartiacque con la tradizione di Mondo piccolo, Jean-Paul Sartre era uno dei pensatori di riferimento, insieme a Marcuse, per il movimento studentesco, anche se il suo pensiero fu poco compreso e soprattutto (disatteso). Al di là di questo particolare, è importante notare che il suo esistenzialismo costituisce l’altra faccia del ragionamento dello scrittore emiliano; alla fede Sartre oppone la sua filosofia, una severa e stoica dottrina che mette l’individuo davanti alle proprie responsabilità e alla propria solitudine. Per Sartre, Dio è il dolore dell’uomo che teme la morte. Guareschi vi leggeva un pessimismo che avrebbe assestato duri colpi a quella società cui si sentiva profondamente legato, ma soprattutto vi leggeva un’altra negazione della fede, anche se non violenta come nel comunismo. Dove stia la verità, non è certamente in potere di questa pagina stabilirlo. Qui è sufficiente provare a riflettere su come, senza scendere nella piazze e aizzare folle alla violenza, Guareschi abbia professato le sue opinioni con umorismo, acutezza sociale, solidità di ragionamento. Senza cadere nell’“ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto”.

Giovannino Guareschi, Monumento equestre, 2 maggio 1954 (Candido) – Fondazione Mondadori

Giovannino Guareschi, Monumento equestre, 2 maggio 1954 (Candido) – Fondazione Mondadori

QUEL NATALE DEL ‘54

Ipocrita, Guareschi non lo fu mai. Lo dimostra la sua vicenda di Internato Militare Italiano dal 1943 al 1945, in Polonia prima e in Germania poi, e forse ancora di più lo dimostra la volontaria prigionia in Italia, dopo la “vicenda De Gasperi” sulle presunte lettere dello statista che invitavano l’aviazione militare alleata a bombardare la periferia di Roma per spingere i civili all’insurrezione contro gli occupanti tedeschi. Condannato in un processo non esattamente equo, in cui furono rifiutate alcune perizie sui documenti, Guareschi rinunciò all’appello (che lo avrebbe visto assolto, ma con formula ambigua che non avrebbe riconosciuto la sua onestà), e preferì scontare venti mesi di carcere a Parma. E fra quelle mura, al pari di Curzio Malaparte, anche Guareschi era “libero in una prigione”; anche lui, come Giacomo Leopardi, scavalcava la siepe e si perdeva in quell’Infinito che per lui corrispondeva alla grandezza di Dio, dalla quale traeva sempre sollievo spirituale.

RISCOPRIRSI INDIVIDUI

Si può certamente non concordare con le opinioni di Guareschi, ma non si può negare la coerenza e l’onestà intellettuale con cui le professava; e ancora, quel suo esporsi di persona, quel rifiutare la logica tutta italiana “dell’amico” e “del favore”. Onestà intellettuale che spesso, in un mondo (anche dell’arte) dominato da logiche finanziarie e di mero interesse personale, viene meno. Ma ricordiamoci anche di come, sorretto dalla fede, riuscisse sempre ad apprezzare la bellezza del Creato (di cui l’individuo è parte inscindibile), a trarne motivo di gioia che si riverberava nei suoi rapporti personali e nelle pagine che scriveva.
Nell’era del pessimismo intellettuale di lontana matrice decadente, appare quasi ridicolo l’immancabile lieto fine delle storie di Guareschi (il discorso è ovviamente diverso per le vignette di Candido), forse perché, inondati da una negativa “cultura della massa” che ha spazzato via la vicinanza spirituale fra individui, troppo spesso ci sfugge la semplice possibilità del dialogo, della condivisione e del rispetto delle opinioni altrui. Un rispetto che era comunque alla base della condotta di Guareschi. Anche solo per questo, vale la pena riscoprirlo.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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