Pittura lingua viva. Parola a Vera Portatadino
Viva, morta o X? Diciannovesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura "espansa" alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l'illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Vera Portatadino (Varese, 1984) vive tra Varese e Milano. Ha studiato alla NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e al Chelsea College of Art & Design di Londra. Tra le sue mostre personali recenti: Getta i Numeri fra le Stelle, SpazioArte, Varese, 2018; The Sun is the Same, Microcosmi, Comerio, 2017; Vera Portatadino Solo, MARS, Festival Spazi c/o Fabbrica del Vapore, Milano, 2015; Verticalismi, BreraUno, Corbetta, Milano, 2013. Tra le collettive Premio Lissone, MAC Museo, Lissone, 2018; Supersimmetry, Frizzi, Colonia, 2018; Reazione a Catena, Galleria Bonelli, Milano, 2018; SSSSSSS, Atrii + Yellow, Varese, 2018; Penser Fleurs, Galerie Détour, Namour, 2018; Instabilestabile, Chiesa di San Rocco, Carnago, 2018; Painters Painting Painters, MARS, Milano, 2018; Open Studios, VIR ViaFarini, Milano, 2018. Tra le residenze e i workshop cui ha partecipato: Simposio di Pittura, Fondazione Lac o Le Mon, Lecce, 2018; Nella Casa Rossa, Rotes Haus, Dresda, 2017; Attraverso il Vero, Casa Morante, Castel di Ieri, 2017; Landina Pitture di Paesaggi, CARS, Omegna, 2015. È vincitrice del Premio Città di Treviglio 2018. È direttore dell’artist-run space Yellow a Varese.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
Penso come tutti, dapprima molto spontaneamente durante il corso dell’infanzia come modalità esplorativa del mondo e di me stessa, poi ho sentito esplodere la necessità di farne una scelta di vita consapevole, durante il master al Chelsea College of Art & Design di Londra. La pittura sembra essere la modalità che meglio si adatta al mio pensiero, al mio modo di essere e di esperire il mondo.
Quali i tuoi maestri o gli artisti cui guardi?
Ce ne sono tanti e percorrono tutta la storia dell’arte, cominciando dalla pittura rupestre e da quella vascolare arcaica. Nel corso del tempo ho guardato cose molto diverse. Sicuramente numerosi appartengono alla storia della pittura italiana, Giotto, Piero della Francesca, Benozzo Gozzoli, i medievali e i rinascimentali in toto, spesso gli anonimi pittori di scene religiose, senza dimenticare la pittura fiamminga e Bosch, Goya, Rembrandt, il Novecento, Matisse, Picasso, Rothko, Bacon… fino ad arrivare ai giorni nostri con Tuymans, Richter, Bill Lynch, Rosenthal… Oggi guardo con passione i miei colleghi italiani e quelli belgi, tra cui ci sono svariati pittori pieni di talento.
Perché i fiori nelle tue opere più recenti?
L’evoluzione del mio lavoro verso i più attuali dipinti in cui spiccano dettagli botanici e altri elementi figurativi e astratti, adagiati e/o fluttuanti in campiture e superfici indefinite, nasce gradualmente con la presa di coscienza dell’influenza giocata nel mio immaginario da parte di tutta una serie di dettagli non solo botanici, che nelle sale dei musei catalizzano la mia attenzione verso gli angoli e i margini delle opere d’arte d’ogni epoca, per indagarne la superficie, il minuscolo, il pulviscolo, il marginale, che pure esiste, a prescindere dalla scena principale. Il dettaglio nell’opera d’arte è un momento contrastivo capace di riattivare continuamente l’immagine per aprirla a significati altri. Nei dettagli botanici di certe scene sacre quattrocentesche, lo spazio si dilata e nuovi mondi prendono vita.
Perché la scelta della figurazione, della natura come soggetto?
La natura mi ha sempre interessato perché credo sia la verità, l’essenza dell’esistenza, da contemplare. Essa rende evidente la contraddizione tra la bellezza e la drammaticità di cui siamo partecipi come essere umani. In questi ultimi lavori colleziono elementi botanici e naturali, reliquie organiche e a volte inorganiche, raccolte durante le camminate giornaliere e scoperte ai margini delle strade, dei boschi o, ancora, avanzi di vita sparsi sui marciapiedi. Meticolosamente li raccolgo e li porto in studio per conservarli e osservarli, quasi come fosse una pratica scientifica. Li dipingo dal vero e uso la tela come se fosse un vetrino, su cui ingrandire, attraverso il pennello, la concretezza delle cose che esistono. Delle cose che restano. Cerco di capire di cosa sia fatta questa vita, questa Terra. Il crescente inquinamento atmosferico, la cementificazione, il riscaldamento globale, l’esponenziale crescita di rifiuti inorganici, l’intensificazione dei processi industriali e intensivi nell’agricoltura e l’uso massivo dei pesticidi rendono ai miei occhi ancora più preziosi questi piccoli reperti che trovo, proiettandomi in un futuro forse non troppo fantascientifico, sicuramente distopico, in cui immagino la rarità di certi elementi naturali, magari portati su Marte in qualche piccola teca, come ricordo di un pianeta che non è più, lasciato ormai alle spalle.
Come nascono i titoli delle tue opere?
La maggior parte dei titoli trova ispirazione nei versi delle canzoni che ascolto mentre dipingo, nei testi che leggo, nelle poesie degli autori che amo, nelle parole che mi vengono in mente in un certo momento in un determinato ordine.
Parlavi prima di futuro… Perché affermi che “il futuro appartiene ai coraggiosi”?
Future belongs to the brave è il titolo che ho dato a un polittico che ha per soggetto lo spazio cosmico, il macro e il microcosmo, ma è in verità un’affermazione che fece il presidente statunitense Reagan in seguito all’esplosione dello shuttle spaziale Challenger, nel gennaio del 1986. Il Challenger esplose dopo solo settantatré secondi di volo con a bordo sette membri dell’equipaggio. Il futuro appartiene sempre ai coraggiosi. La paura può essere, a mio giudizio, la peggior nemica nella vita. La paura di quello che non si conosce, del diverso, dell’essere diversi, dell’ignoto, del male che potrebbe accadere, del fallimento, del giudizio, del cambiamento, della responsabilità. La paura immobilizza e acceca. Molti miei lavori hanno come riferimento lo spazio, il cosmo. Spesso i dettagli botanici sono dipinti in spazi indefiniti che per me rappresentano altri mondi o altri tempi, momenti primordiali o futuri, tutto quello che si cela prima e dopo i confini rassicuranti che ci siamo dati.
Cos’è quindi il tempo per te?
Ho uno strano rapporto con il tempo. Con la pittura cerco di tenere insieme passato, presente, futuro. In un certo senso lo combatto. Nei miei quadri riusciti il tempo non esiste. Nella vita, mi sento inadeguata a vivere assoggettata a esso, nel modo in cui siamo abituati e, come dire, ci tocca fare. Il tempo, come successione lineare di secondi, minuti, ore, giorni, anni è per me la costante presenza del potenziale, inesorabile collasso della vita. La fine di qualcosa ogni volta. L’istante dopo è la morte di quello precedente, del resto sulla vita veglia l’ombra della morte e viceversa. Non disprezzo la fine, né voglio eliminare la morte, ma desidero concepire un tempo fatto “a matrioska”, che si compenetri, che sia un istante che non superi, ma che contenga il precedente. Il mio pensiero è molto simile a un romanzo di Virginia Woolf e, così come la mia pittura, ha a che fare con la stratificazione e con la lentezza.
Presenti i tuoi lavori come un’indagine su precarietà, trasformazione e contraddizione…
Penso che non ci sia niente dell’esistenza che non mi faccia pensare a queste tre condizioni. Penso siano il succo dell’esistenza. La vita in sé. Attraverso il mio lavoro cerco di rievocare questa consapevolezza. Come dicevo, la natura rende per me evidente la contraddizione tra la bellezza e la drammaticità dell’esistenza. La natura è seducente, appagante, ma sempre in continua trasformazione e perciò precaria, al di fuori del nostro controllo. Contemplando in essa questa condizione e accettandola per noi stessi, forse vivremmo meglio la nostra individualità e la relazione con gli altri. Forse, ci sentiremmo meno in potere sulle cose e sulle persone. La contemplazione della natura ci insegna che non siamo padroni di niente, ma siamo partecipi. La bellezza è l’esperienza più potente che abbia mai vissuto, è ciò che rende la mia vita valevole di essere vissuta.
Figurazione e astrazione: come farle convivere, quale il punto di rottura in cui l’una sfocia nell’altra?
La pittura è per me un modo di mettere a nudo i meccanismi del pensiero e di esplicitare quindi la mia esperienza e il mio pensiero rispetto all’esistenza. Ci sono cose che ci sono chiare, altre no. Eppure tutte esistono. L’astrazione è l’insieme delle cose a cui non so dare un nome, che pure esistono. È come un brodo primordiale in cui coesistono possibilità svariate ancora incompiute, l’indeterminatezza, le emozioni, le sensazioni, la materia in sé, l’assoluto, il pensiero che si pensa, l’assenza del tempo. In questa indeterminatezza c’è un momento di chiarezza del pensiero, in cui prendono vita le cose che si conoscono e si sanno nominare, c’è quindi la figurazione, il tempo incarnato.
Dal niente o, forse, da una materia indistinta, qualcosa si forma e si distingue per poi ritornare nel niente, o, forse, nella materia indistinta.
Dicevi che i titoli delle tue opere nascono da canzoni, testi, poesie. Quali, in generale, le tue fonti d’ispirazione?
Guardo un po’ dappertutto. Se devo citare chi più assomiglia al mio modo di essere e di pensare e, quindi, chi invigorisce il mio lavoro, ti direi Virginia Woolf, T.S. Eliot, alcuni romanzi di fantascienza, Dino Buzzati, Hanna Arendt, Paul Virilio, Stefano Mancuso, gli Arcade Fire, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, Patti Smith, Kate Bush, Lucio Battisti, Queen, The Smiths, e, cinematograficamente parlando, quello che considero il mio più grande maestro: Andreij Tarkovskij.
Un po’ lo hai già accennato, ma mi piacerebbe approfondire il discorso: preferisci l’osservazione dal vero o il lavoro in studio? La fotografia ha un qualche ruolo come strumento preparatorio per creare una composizione?
No, la fotografia ha un ruolo del tutto irrilevante nel mio processo compositivo. Lavoro per immagini mentali e osservazione. Per gli sfondi mi lascio guidare da casualità e intuizione, in essi cerco una superficie, una materialità, una tangibilità, ma vado a tentoni e libero la mia esigenza esploratrice e sperimentale. Li costruisco per velature. Gli elementi figurativi sono invece dipinti dal vero, utilizzando i reperti collezionati.
Quando scatto foto, lo faccio per arricchire il mio bagaglio di ricordi e ispirazioni. Ma generalmente non realizzo un’opera basandomi su una fotografia.
Hai vissuto a Londra, vedi differenze sostanziali rispetto alla ricezione della pittura?
A Londra “anything goes” e quindi i pittori vengono nominati per i premi nazionali più prestigiosi, così come sono invitati in musei e istituzioni importanti. Fino a qualche anno fa questo era più impensabile che raro in Italia. Oggi le cose stanno forse cambiando.
Anche tu, d’altra parte, hai contribuito a questo cambiamento approfondendo la ricerca e il dibattito sulla pittura con l’attività di Yellow. Parlaci di questo progetto.
Yellow nasce proprio per cercare di dare visibilità alla ricerca pittorica in Italia. È un progetto di ricerca e uno spazio non profit gestito da artisti, che ho fondato a Varese nel 2014, nell’ambito di Zentrum. In questi anni ho invitato a esporre diversi pittori italiani e internazionali. Sono nati approfondimenti, scambi, confronti. Sono state fatte due bellissime pubblicazioni bilingui, in italiano e inglese, che documentano tutte le mostre e i testi prodotti da Yellow. Inoltre è uno strumento di promozione della pittura italiana all’estero, grazie a gemellaggi e collaborazioni con altre realtà no profit internazionali. Dal 2018 ho deciso di condividere la direzione del progetto con altri pittori italiani, con cui abbiamo anche rinnovato il sito web, http://yellowyellow.org/, arricchito da approfondimenti e interviste.
In questi giorni stiamo promuovendo una raccolta fondi per finanziare il prossimo anno di attività, mettendo in vendita a un prezzo eccezionale ed esclusivo opere cartacee appositamente donate dai pittori che hanno esposto finora.
Cosa pensi dunque della situazione della pittura italiana contemporanea?
Penso sia molto in fermento. Ci sono moltissimi giovani che con passione portano avanti la propria ricerca pittorica. Nelle accademie si è tornato a dipingere e non mancano i tenaci pittori delle generazioni precedenti. Nessuno di loro ha niente da invidiare in termini di qualità ai pittori di altre nazioni, anzi credo che in questo momento, forse proprio a seguito delle sue fatiche e delle sue battaglie, la pittura italiana abbia qualcosa in più da dire.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
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Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
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