Architetti d’Italia. Gio Ponti, il creativo
Non imbrigliabile in facili etichette e spesso penalizzato dalla critica, Gio Ponti è protagonista del nuovo capitolo della rubrica dedicata agli architetti italiani da Luigi Prestinenza Puglisi.
Ci sono architetti che la critica metabolizza con difficoltà. Forse perché si dedicano al lato “troppo” umano del design: amano i colori, le forme e le fantasie sgargianti, sono attenti alla psicologia degli utenti. Rifuggono il monumentale e, al razionale, prediligono il sentimentale. A volte cadono nella decorazione e così hanno successo di pubblico. Rifiutano l’idea che l’architettura debba essere un teorema ben dimostrato o una costruzione geometrica astratta. Diffidano dai ragionamenti apodittici. Amano il buon gusto domestico e, proprio per questo, cadono nel kitsch.
Josef Frank fu, per esempio, un grande progettista che si mosse lungo questa dimensione. E, difatti, lo conoscono in pochi. Nonostante si fosse impegnato con il Werkbund austriaco. Avesse partecipato al Circolo di Vienna. Avesse diretto, coinvolgendo anche Adolf Loos, una esposizione di case sempre a Vienna, fatta in opposizione al Weissenhof siedlung di Stoccarda strumentalizzato dalla triade Mies, Le Corbusier e Gropius. Fosse diventato un designer di mobili, tessuti e tappezzerie che hanno avuto un notevole influsso nella diffusione del gusto moderno.
In Italia simile destino toccò a Gio Ponti. Ponti, però, è più conosciuto, se non altro come l’autore del grattacielo Pirelli e della sedia Superleggera. E, difatti, il critico Manfredo Tafuri lo ignorò sistematicamente. Se espresse un giudizio su di lui, lo fece per ricordare che il Grattacielo Pirelli sembrava ritagliato da una forma di formaggio, per poi contrapporgli la Torre Velasca, disegnata da BBPR, che invece, “orgogliosamente avvolta nella sua matericità, si dilata come magma energetico verso il cielo, assumendo l’aspetto di una torre medioevale paradossalmente ingigantita”. Vi rendete conto? Ma, neanche Zevi ci andò leggero. Ponti non era nella sue corde e paragonò il grattacielo a un mobile ingrandito. Entrambi non si accorsero che il milanese aveva realizzato uno dei pochi lavori che in Italia avesse l’ardire di contrastare la “ritirata dal moderno” denunciata dal critico inglese Reyner Banham.
OLTRE I LIMITI
Ponti non era nuovo a mosse spiazzanti. Lui che si caratterizzava, negli anni del fascismo, per il recupero originale e creativo dei codici neoclassici, aveva disegnato per la città universitaria di Roma un edificio genuinamente moderno, la Scuola di Matematica, composto da parti distinte che articolano una volumetria scevra dalle disgustanti prove retoriche degli edifici piacentiniani. Negli stessi anni, con l’edificio della Montecatini a Milano, mostrò quale era la strada da perseguire se si voleva realizzare un edificio a uffici funzionale e al passo con i tempi. Quasi a rivendicare ‒ verso chi voleva affibbiargli l’etichetta di decoratore di vasi e porcellane con disegni che vellicavano le ambizioni della buona borghesia ‒ la capacità di stare sempre sul pezzo, cioè la sua inafferrabilità. Se appena provate a pensare a uno stile che lo caratterizzi e accompagni nel corso di tutta la sua lunga carriera, subito vi verranno in mente almeno dieci lavori che vanno in direzioni diverse. Non c’è forse nessun architetto in Italia che abbia avuto la capacità di muoversi, con prodotti di altissima qualità, da una posizione all’altra. Curioso, eclettico e sempre al lavoro, Ponti era l’unico che poteva correre con intelligenza dietro a tutte le novità, cosciente cha la creatività non vuole né limiti né confini. Da qui il suo talento di giornalista, di impareggiabile direttore di riviste. In particolare della sua creatura, Domus, che fondò nel 1928 e diresse sino al 1941 per riprenderla nel 1948 e tenerla sino al 1979, anno della morte (dal 1976 è affiancato da Cesare Casati, un personaggio la cui importanza nel mondo dell’editoria di architettura non è stata ancora messa a fuoco con la dovuta attenzione). In Italia le riviste di architettura sono state uno strumento per acquisire potere di scambio. Non so quanto abbiano giovato anche a Ponti. Certo è che un progettista eclettico come lui, senza un megafono forte e convincente come la sua Domus, sarebbe presto scomparso. In periodi di rigide contrapposizioni ideologiche, sarebbe stato liquidato come un professionista che, appunto, realizza edifici che a Tafuri ricordano una fetta di Soresina e a Zevi uno stipetto. Vi immaginate l’ostracismo con cui sarebbero state trattate le sue “finestre arredate” nate dalla contrapposizione con l’algido stile internazionalista delle finestre in lunghezza o coi codici postmoderni rossiani generanti infinite sequenze di buchi squadrati?
Amanti come siamo diventati del superminimalismo, anche nelle sue varianti anoressiche, facciamo fatica a stare dietro alla bulimica complessità e ricchezza degli interni di Gio Ponti. Dove tutto, dal vaso sino al soffitto, può essere disegnato e integrato da sequenze di rivestimenti a loro volta relazionati con mobili dalle forme più diversificate. Qualcuno ha parlato di trasparenza e leggerezza. Basta pensare alle celeberrime sedie Leggera e Superleggera per capire che Ponti non aveva un amore particolare per la gravità e la monumentalità. Eppure, se osservate appena le gambe delle sedie, vi accorgete che da designer si muove in un mondo radicalmente diverso da quello miesiano o lecorbusieriano o anche, per citare uno che con il legno realizzava prodigi, di Alvar Áalto. Tanto che non esitava a colorarle queste sedie, anche con tinte diverse in modo da renderle sorprendenti, più che oggetti dematerializzati, come avrebbero voluto per esempio i neoplastici. Oggi si direbbe, utilizzando una brutta parola, empatiche.
UNA ALLEGRA SEVERITÀ
L’occhio per Gio Ponti deve poter girare incessantemente, scoprire in ogni angolo nuove qualità, godere di inaspettati effetti. Se guardate le piante degli appartamenti da lui disegnati, sono concepite in ogni punto per lasciare traguardare lo sguardo verso le prospettive più ampie possibili, verso aperture o squarci inaspettati. Che inquadrano qualcosa di ben determinato, quindi non asettiche trasparenze. Dicevamo del suo disprezzo per la finestra in lunghezza: se si lascia troppa libertà, di libertà non se ne costruisce alcuna. La scena invece deve sempre essere accuratamente preparata, costruita. Tanto che un commentatore, a ragione, ha parlato di teatralità, di una architettura-palcoscenico, all’interno della quale si rappresenta la commedia o, se volete, la tragedia della vita. Ecco perché la glass house di Mies, che tanto ha influenzato gli architetti della sua e delle successive generazioni, lascia Ponti progettualmente indifferente. Se la parete vetrata (lui la chiama la “quarta parete”, pensando alle altre tre fatte da muri) apre in qualche modo al cielo, lo fa per arricchire l’interno, non per dematerializzarlo. In questo senso le architetture devono essere introspettive. Diventare case che ci tutelino dalla natura e non schermi che ce la proiettino in continuazione. Ponti cerca così di dare un senso al concetto di mediterraneità, uno dei più sfuggenti e scivolosi dell’architettura italiana. La casa è un interno. Un interno colorato, decorato, luminoso. Un luogo dove regna una allegra severità. È un ossimoro che ricorre spesso nelle interviste a coloro che hanno collaborato con l’architetto milanese. I quali ricordano la dolcezza del carattere, la generosità (meriterebbe un maggior approfondimento il racconto di quanto fece per Edoardo Persico e per Ernesto Nathan Rogers, che gli fu sempre grato per l’appoggio nei tempi difficili del fascismo, quando lo faceva scrivere sotto pseudonimo), la voglia di vivere, produrre e lavorare e, nello stesso tempo, l’intransigenza, la pignoleria, la competenza tecnica, la severità con la quale giudicava gli errori, a partire dai propri.
Ponti, a differenza di Ignazio Gardella, prototipo del professionista che piaceva all’accademia, ai professori ‒ nonostante anch’egli avesse una cattedra al Politecnico di Milano ‒ piaceva poco. Perché capovolgeva la regola: non è l’università che elabora la teoria che poi i professionisti mettono in pratica, ma sono questi ultimi che elaborano oggetti e progetti che l’accademia dovrà cercare di capire e, se possibile, di sistematizzare. Sapendo, oltretutto, che le teorie sono come i giornali, invecchiano il giorno dopo. Devono essere sostituite con altre che solo chi sta sul campo riesce a pre-formare. Amate l’architettura ‒ che è il titolo di uno dei suoi più celebrati libri ‒ vuol dire sapere stare all’interno di un movimento continuo in cui è meglio correre il rischio di fare un errore che di stare fermi.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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