Alla Scala, una donna senz’ombra
Una favola che da Milano si muove vero il Covent Garden di Londra. A scriverla sono stati Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss, e non hanno lesinato in difficoltà. Ora però tutto si svolge in una clinica per malati mentali. E il risultato è notevole.
L’aspetto più interessante dell’allestimento di Die Frau ohne Schatten di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss andato in scena alla Scala è la trasposizione onirica del suo complesso piano simbolico. Quest’opera, in autunno al Covent Garden di Londra, dove è destinata a restare in repertorio per diverse stagioni, potrà decisamente interessare i britannici a cui solitamente non piacciono le favole.
Cominciamo dalla vicenda per cogliere l’interpretazione registica di Claus Guth e Ronny Dietrich. Per seguire la vicenda non è necessario leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss (edito Adelphi circa vent’anni fa) né forse ripercorrere il recente mirabile saggio di Mario Bortolotto La Serpe in Seno. Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti – in primis Le Mille e una Notte – o nei valori simbolici di cui i personaggi sono emblema (l’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). Uno solo di essi ha un nome proprio: è Barak, il tintore.
Il filo dell’apologo è lineare e conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore. Due sono le coppie al centro della vicenda. Il giovane Imperatore e l’Imperatrice (una gazzella trasformatasi in una bellissima fanciulla) e un povero tintore con tre fratelli disabili e la sua donna. La prima coppia non può generare figli perché l’Imperatrice non ha ombra e quindi non è una donna completa. L’altra perché stremata dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggerito dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, causando però a quest’ultima e al suo Barak sofferenze gravissime.
Il “furto” però non salva neanche la coppia imperiale. La salvezza sopraggiunge dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna. La compassione dei Cieli trasforma il coro dei bambini non nati (con cui termina il primo atto) in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Hofmannsthal e Strauss pensavano alla rinascita dell’Europa distrutta dalla Grande Guerra: non per nulla nella loro opera precedente, Ariadne auf Naxos, avevano cantato in pieno primo conflitto mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. A questo fine Strauss avvolge il testo di Hofmannsthal in una partitura sontuosa: un sinfonismo continuo in buca di impronta wagneriana corredato da sette intermezzi, tutti su variazioni dello stesso tema, un espressionismo vocale che arriva a scelte stilistiche difficilissime (e che pochi interpreti osano affrontare), l’impiego di scale cromatiche complesse (anche mascherate) per dare, unitamente a contrappunti timbrici, una tavolozza di tinte sgargianti ai vari momenti della favola-apologo.
Per il direttore d’orchestra le difficoltà sono enormi. L’orchestrazione è molto fitta ed è difficile tenere un equilibrio con le voci, essenziale non solo sotto il profilo tecnico-musicale ma anche per la comprensione testuale. Inoltre la partitura ha una combinazione contrastante di cameristico e sinfonico; a momenti di musica molto leggera (per pochissimi strumenti) fanno riscontro passaggi, come la conclusione del secondo atto, in cui è essenziale ridurre il volume del suono in buca. Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena, con grande difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci, e l’orchestra. Enormi anche le difficoltà per i cantanti, specialmente i cinque protagonisti – tutti tenuti sul registro acuto.
Complesse le “disposizioni sceniche” del libretto: nelle dieci scene, con cambi a vista, si dovrebbe passare da Palazzi imperiali a spelonche, da giardini incantati a fiumi navigabili, da cascate a un grandioso arcobaleno praticabile sotto cui i bambini nati emergerebbero dal fondo scena.
E cosa fanno i registi Claus Guth e Ronny Dietrich? Prima che inizi la musica, vediamo una bella giovane donna (l’Imperatrice), il marito (l’Imperatore) e un medico. Sono in una clinica. La donna ha chiaramente disturbi mentali e la vicenda si dipana come un suo sogno. Non manca né una parola del testo né una nota, ci sono anche gli animali (il falco, la gazzella, il cervo), ma tutto diventa plausibile su un piano, al tempo stesso, erotico ed etico grazie a un allestimento leggero, trasportabile da teatro a teatro. Al successo alla Scala ha contribuito l’eccellente esecuzione musicale. Il giovane direttore Marc Albrecht, catturato il pubblico con una lettura avvincente, ha fatto suonare in modo eccellente l’orchestra della Scala. Magnifico il contrappunto. Cantanti e attori di ottimo livello.
Giuseppe Pennisi
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