Andy Warhol. Due capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti
La mostra Andy Warhol. Due capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti a cura di Fabio Belloni presenta per la prima volta al Castello di Rivoli le opere dell’artista sinora conservate a Villa Cerruti di Rivoli, dimora edificata dall’imprenditore torinese per ospitare la propria formidabile raccolta.
Comunicato stampa
Nessun artista riassume l’idea di Pop art quanto Andy Warhol. L’interesse per l’immaginario dei consumi, la mimesi del linguaggio pubblicitario, l’adozione di uno stile freddo, seriale e in apparenza anonimo: ecco i punti su cui poggia la sua ricerca, maturata a inizio anni Sessanta e sviluppata sino alla metà degli Ottanta. Sarebbe però riduttivo identificarlo solo con il fenomeno pop: Warhol ha rappresentato molto di più, tanto da diventare una figura chiave dell’intero Novecento. E tanto, soprattutto, da impersonare la nuova iconografia dell’artista contemporaneo: non più genio disadattato ma uomo di successo, abile manager di se stesso e della sua Factory, capace addirittura di dettare le mode nel costume come nella musica. Se ciò accadde fu anche perché egli riscosse quasi subito una fama planetaria: non inferiore a quella delle star hollywoodiane i cui volti invadono ossessivamente i suoi quadri. Personaggio complesso, a tratti impenetrabile, Warhol ha riposto grandissima cura nella costruzione della propria immagine pubblica. Ne conosciamo il look eccentrico al pari delle opere: magro, con macchina fotografica sempre con sé e capigliatura dal colore improbabile, esito di tinte o, più spesso, parrucche argentee. Le laconiche ma fulminati dichiarazioni pronunciate lungo l’intera carriera hanno fatto il resto: sentenze disarmanti per la naïveté mista a ironico distacco, che lasciano all’ascoltatore intuire dove la provocazione sconfini nel cinismo.
La mostra Andy Warhol. Due capolavori dalla Collezione di Francesco Federico Cerruti a cura di Fabio Belloni presenta per la prima volta al Castello di Rivoli le opere dell’artista sinora conservate a Villa Cerruti di Rivoli, dimora edificata dall’imprenditore torinese per ospitare la propria formidabile raccolta. Si tratta, nella fattispecie, di lavori della maturità. Hélène Rochas è uno dei quattro dipinti che nel 1975 l’artista dedica all’ex modella francese e già direttrice dell’omonima azienda di profumeria, nota per l’intraprendenza quanto per la sofisticata eleganza. Come tutte quelle del periodo, l’opera nasce dopo una sessione di ritratti con la Polaroid. Scelto lo scatto, Warhol ha incaricato i propri assistenti di serigrafarlo su una tela già dipinta con ampie pennellate di colore acrilico, in tal caso dalla dominante verde. Madame Rochas spicca per la malìa della posa: diventa una figura senza età. Il passaggio dalla foto alla serigrafia ha annullato ogni valore chiaroscurale, mentre il rapporto figura-sfondo cede la propria definizione per giocare con l’ambigua compenetrazione tra piani. L’opera appartiene ai cosiddetti Celebrity Portraits, dipinti su commissione iniziati nel 1972 quando l’artista tornò alla pittura dopo anni di sperimentazioni filmiche. Di quei ritratti che ricapitolano le figure dello star system internazionale Warhol eseguiva svariate versioni: la prima, più costosa, per il committente, le altre a beneficio del mercato.
Realizzato nel 1982, The Poet and His Muse appartiene invece al ciclo dedicato a Giorgio de Chirico e moltiplica quattro volte sulla stessa tela un suo lavoro del 1959 con manichini paludati all’antica. Warhol ammirava da sempre il maestro della metafisica: lo aveva anche incontrato in più occasioni durante i suoi soggiorni italiani, a Roma e Venezia. Eppure fu solo in quell’anno – dopo aver visitato la grande retrospettiva ordinata da William Rubin al MoMA – che decise di omaggiarlo. Non si trattava solo dell’ennesima citazione in un periodo segnato da continui tributi ai classici, soprattutto italiani (Botticelli, Leonardo, Raffaello). In lui infatti Warhol riconosceva un vero precursore: “De Chirico ha ripetuto le stesse immagini per tutta la vita. Credo che l’abbia fatto non soltanto perché i collezionisti e i mercanti d’arte glielo chiedevano, ma perché gli andava di farlo e considerava la ripetizione un mezzo per esprimersi. Probabilmente è questo che abbiamo in comune… La differenza? Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io lo ripeto nello stesso giorno nello stesso dipinto”.
Andy Warhol
Nato a Pittsburgh nel 1928 da una coppia di immigrati cecoslovacchi, a diciassette anni si iscrisse al Carnegie Institute of Technology frequentando i corsi di disegno e arti decorative. Nel 1949 giunse a New York dove iniziò a lavorare come illustratore per riviste di moda e agenzie pubblicitarie. Al 1960 data la conversione alla pittura. Un paio di anni dopo l’artista ricorse alla serigrafia, tecnica che oltre all’impersonalità dell’esecuzione gli consentiva di riprodurre l’immagine in un numero potenzialmente infinito di esemplari mantenendo inalterata la qualità di partenza. “Il motivo per cui dipingo in questo modo – dichiarò nel 1967 – è che voglio essere una macchina e che sento che quando faccio una cosa come se fossi una macchina ottengo il risultato che voglio. Penso che tutti dovremmo essere macchine”. Nel 1963 Warhol trasferì lo studio in un grande loft sulla 47esima Strada e lì, grazie a una schiera di collaboratori, allargò la propria attività creativa. Nella Factory – nome dato al proprio laboratorio – nascevano opere serigrafiche, ma anche fotografiche e filmiche. L’iconografia era decisamente ampia: temi di morte violenta (le vittime di un incidente aereo, la sedia elettrica usata come pena capitale), le celebrità hollywoodiane (Marilyn Monroe, Elvis Presley, Liz Taylor) oppure i più tipici prodotti alimentari della civiltà americana (le bottiglie della Coca Cola, le scatole della zuppa Campbell’s). Negli ultimi anni l’artista si dedicò anche alla televisione e all’editoria. Contemporaneamente iniziò a rivisitare le grandi opere del passato (da Leonardo a de Chirico) collaborando anche con gli artisti dell’ultima generazione. Morì nel 1987 in seguito ai postumi di un’operazione chirurgica.
Francesco Federico Cerruti nacque a Genova il 1° gennaio del 1922 da Giuseppe (1890-1972) e da Ines Castagneto (1892-1977). Il padre, di modeste condizioni economiche e dipendente di una legatoria genovese, si trasferì con la famiglia a Torino l’anno successivo, in cui venne alla luce la sorella Andreina il 19 gennaio 1923. Giuseppe, inviato nella città subalpina dalla ditta genovese per aprire una succursale, ben presto si mise in proprio avviando una sua attività di legatoria. Gli anni dell’infanzia di Francesco Federico furono caratterizzati da un’educazione molto ferrea e severa e i due fratelli, già in età scolare, vennero subito coinvolti nell’attività del padre che li obbligava a legare i libri nella cucina di casa dopo il rientro da scuola. Questo ambiente familiare, così austero e rigido, influì molto sulla formazione e sul carattere di Francesco Federico, che per tutta la vita mantenne sempre uno stile di vita molto sobrio dai tratti molto intransigenti.
Diplomatosi in ragioneria nella sessione estiva del 1940 presso l’Istituto tecnico commerciale G. Sommelier, Francesco Federico entrò subito a lavorare nella ditta familiare, seguito l’anno successivo dalla sorella. I bombardamenti del luglio del ’43 distrussero completamente lo stabilimento che allora era sito in corso San Maurizio, poco distante dal centro cittadino. Nel dopoguerra il “ragioniere”, così venne in seguito chiamato da tutti, dimostrò grandi capacità organizzative e un grande spirito di innovazione a tal punto che rilanciò l’azienda familiare, denominata Legatoria Industriale Torinese. Dopo una sua visita negli Stati Uniti nell’ottobre 1957, introdusse in Italia la tecnica americana della “perfect binding”, una procedura che permetteva la rilegatura senza cuciture. Creò le proprie macchine per industrializzare la legatoria - fino ad allora pratica artigianale - brevettando anche tecniche specifiche. Grazie a questa sua ingegnosità, la LIT raggiunge i massimi livelli di produzione, con ingenti quantità di commesse inerenti alle rilegature di libri d’arte e, soprattutto, alle guide telefoniche italiane.
A questo suo innovativo spirito imprenditoriale affiancò un grande amore per la bellezza, fondato su un’innata raffinatezza e profonde intuizioni, che lo portò a creare una delle collezioni d’arte tra le più importanti d’Europa. Oltre alla passione per il bello e alle capacità visionarie del capitano d’industria, erano presenti in lui sentimenti di compassione e di carità, tradotti in attività di beneficenza, sempre nel suo stile rigoroso e appartato, lontano dai riflettori. Dopo una lunga malattia, morì a Torino il 15 luglio 2015.
La mostra è realizzata con il sostegno della Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte