Beuys in prima persona. Intervista ad Hannes Egger
Al Museo di Arte Contemporanea Cavalese è possibile visitare, fino al 24 marzo 2019, “Walking in Beuys Woods”. La mostra, a cura di Antonella Palladino ed Elio Vanzo, vede il lavoro di Hannes Egger dialogare con la figura di Joseph Beuys e con un nucleo di fotografie che lo riguardano.
La mostra è un percorso che, da un lato, introduce alla figura di Beuys, artista-sciamano, senza mai cadere nel celebrativo o nell’ostico, dall’altra coinvolge gradualmente il visitatore secondo la metodologia di Hannes Egger (Bolzano, 1981): l’ultima opera, Secret Block, consiste in una vera e propria performance eseguita dal pubblico, guidato da un audio in cuffia.
La mostra è completata da Bee Island, un’installazione pensata da Nicolò Valente, studente appassionato di Beuys, che sarà collocata nel Parco della Pieve di Cavalese.
Abbiamo parlato con Hannes Egger ed Elio Vanzo di fototrappole, ecologia e performance.
Come è nata l’idea della mostra?
Hannes Egger: È nata da due eventi diversi. In primo luogo il centro d’arte ha a disposizione una collezione di foto di Beuys, quelle esposte in mostra; poi, parallelamente, Antonella Palladino, che ha curato la mostra insieme a Elio, ha lavorato come insegnante di Nicolò Valente, studente di Cavalese appassionato di Beuys, che ha ideato e realizzerà un lavoro nel Parco della Pieve. Adesso il terreno è gelato, per cui il lavoro si è fermato, ma qui sarà installata il prima possibile Bee Island, ispirata a 7000 querce di Beuys, che rimarrà tutta l’estate. E allora non ricordo più come è andata, ma i due fili si sono riuniti, la collezione e l’interesse di Nicolò per Beuys, ed è nata l’idea della mostra.
Come si è formata la collezione di fotografie?
Elio Vanzo: Le foto fanno parte della collezione privata del nostro presidente, e si tratta di un nucleo di scatti originali del barone Bubi Dorini. Non sono del museo, ma sapevamo che le avremmo avute a disposizione. Ci è venuta l’idea di creare un dialogo con Hannes perché non volevamo fare solo un’esposizione di foto e oggetti di Beuys, ma lavorare seguendone lo stile, il linguaggio. Volevamo creare una mostra attiva, come Hannes sa fare.
E infatti si nota come la mostra sia costruita per passare da un massimo di passività, in Walking in Beuys Woods, in cui l’immagine del visitatore è catturata dalle fototrappole, al massimo di attività di Secret Block, in cui è il visitatore a performare. In mezzo ci sono una serie di opere in grado di avvicinare a Beuys, penso ad esempio a Talking with Beuys, una registrazione che è allo stesso tempo un’opera e un modo per presentare l’artista…
H. E.: Esatto, è tutto costruito come un percorso, per questo chiamiamo Secret Block il “finale”.
Una delle prime installazioni che abbiamo fissato era proprio Walking in Beuys Woods, che è in realtà quella meno legata a Beuys, era una mia idea già da prima, e qui ho visto il modo di poterla realizzare. Abbiamo però capito che avevamo bisogno di raccontare Beuys, in un qualche modo, e in Talking with Beuys tu ti siedi e ascolti una narrazione su Beuys. Passi dalla condizione di Walking in Beuys Woods, in cui entri nel bosco e diventi preda, a una situazione di ascolto mentre guardi te stesso, perché in Talking with Beuys guardi la tua ombra proiettata sul muro. Quello è il lavoro che scioglie gli altri. Gli oggetti che sono nel finale, infatti, sono descritti già in Talking with Beuys.
Che relazione hai con la figura di Beuys? Ti ha sempre influenzato?
H. E.: Devo dire che quando mi hanno chiamato e mi hanno nominato Beuys ho pensato: “è un pezzo grosso, è difficile dal punto di vista intellettuale”. Ho notato che ho sempre fatto un po’ un giro intorno a Beuys, ad esempio quando entravo alla Tate, nella sala di Beuys…
Te ne andavi?
H. E.: Sì! [Ride, N.d.R.]. Perché Beuys vuol dire occuparsi, dedicarsi, cercare di capire. E questa è stata un’occasione di leggere, affrontare una ricerca. Tranne il video Project Terra, infatti, sono tutti lavori nuovi, fatti apposta, come risultato della mia ricerca.
E tranne il bosco con le fototrappole che apre la mostra, mi dicevi. Ma cosa sono di preciso le fototrappole, a cosa servono?
H. E.: Servono a riprendere gli animali, i cacciatori le usano. Le foto del lupo o dell’orso sul giornale, sai quelle grigie, un po’ strane e sfocate, quelle sono fatte con le fototrappole. Sono dei meccanismi con una fotocellula: sanno quando passano gli animali e li fotografano.
E.V.: I cacciatori se ne servono per sapere dove passano gli animali. Se ne servono anche i ricercatori faunistici. Ormai neanche nel bosco siamo soli…
H. E.: È un oggetto del bosco di oggi, del bosco artificiale, ed era questa dimensione antropologica a interessarmi. Alla fine quella che vedi nell’installazione, sullo schermo, è il risultato della fototrappola che riprende, ma le altre scattano foto, per cui alla fine avrò un archivio di foto del pubblico, la preda della mostra.
E invece gli alberi vengono tutti da questa zona?
H. E.: Sì, questi sono gli alberi che sono caduti durante la tempesta del 29 ottobre.
Com’è stata la situazione allora?
E.V.: Drammatica, non ho mai visto una cosa del genere, neanche i nostri genitori se la ricordano. I boschi da Predazzo fino alla Val di Fassa sono a terra, rasi al suolo. Questa mostra è caduta a pennello, perché il disastro climatico subito ha riportato l’ecologia in primo piano.
Volevo chiedervi che valore abbia oggi, secondo voi, la figura di Beuys, la sua proposta utopica.
H. E.: È una proposta utopica che a un certo punto è diventata anche politica, perché Beuys era fondatore dei Verdi in Germania e tutti gli argomenti dei Verdi sono ora attualissimi. In quel momento erano visionari, oggi sono attuali, perché il legame uomo-natura diventa di anno in anno più problematico.
Torniamo alla mostra. Il “finale”, Secret Block, propone un’azione performativa fatta dal pubblico. È una cosa interessante, perché siamo abituati a fruire la performance in maniera passiva, come fosse un quadro, oppure attraverso la documentazione fotografica, e invece tu sposti l’idea del fruire dall’osservare al fare.
H. E.: Io credo che la cosa più interessante in una mostra sia il pubblico. La galleria è un luogo studiato per far vedere, la disposizione delle luci, la struttura: si mostrano le opere, naturalmente, ma anche il pubblico stesso. Per questo le foto delle inaugurazioni sono sempre splendide, perché lo spazio è fatto per fare le foto, è una vetrina per mettersi in scena. A me piace tantissimo vedere le persone in mostra, perché è uno stare insieme in un modo molto particolare, molto diverso da come si starebbe insieme in un bar, o in una piazza, in strada. Ad esempio, girando alla Biennale, si incontrano sempre le stesse persone, per tutta la giornata, e così si creano delle relazioni, si capisce a chi piace cosa, si incominciano a sapere tante informazioni su una persona.
In qualche modo il pubblico performa in ogni mostra, perché la cambia: la Biennale d’autunno con le scolaresche è completamente diversa rispetto all’estate.
Lo si nota bene in alcuni musei romani, caratterizzati da una fiumana di gente.
H. E.: Esatto, lì alla fine quello che vedi è la gente. Questo mi interessa, non le opere che creo nel mio studio e porto fuori, perché quelle le conosco già. Allora ho iniziato a lavorare su progetti partecipativi, e a un certo punto mi sono chiesto come fare a mettere in movimento la mostra, e alla fine ho capito che se il pubblico performa la mostra cambia in ogni momento.
Questi sono stati i passi che mi hanno portato a quel lavoro, ma ho testato tanto, con libri, performance in cui ho delegato altre persone, e a un certo momento sono arrivato all’audio, perché quello ti libera il corpo.
E infatti, per dire, nei videogiochi virtuali le istruzioni arrivano via audio.
H. E.: E quello della mostra è uno spazio virtuale, immaginario. Tutta la mostra lavora sul vedere/non vedere, immaginare/non immaginare. Funziona come in un film, nel quale ci sei tu, e puoi partecipare o meno. Questo è l’approccio che seguo da un paio di anni, ma è il primo progetto in cui uso così tanto materiale, a livello di oggetti.
Anche il gioco al quale hai lavorato con Denis Isaia, Perform!, ha un approccio simile.
H. E.: L’idea di Perform! è nata cinque anni fa, e sì, parte sempre dalla volontà di mettere in gioco le persone, in questo caso di performare la storia dell’arte performativa. È un gioco di carte banalissimo, 40 carte, 4 sono dei jolly, tutte le altre sono delle performance storiche, da Marina Abramović a Yoko Ono a Tino Sehgal. Cinque persone si mettono al tavolo, ognuno prende la sua carta e legge le istruzioni in cui c’è una breve descrizione della performance, e rifà quella performance.
E gli altri devono indovinare?
H. E.: No, gli altri devono giudicare, perché il mondo dell’arte ha sempre a che fare con il giudicare. E ti danno i punti, perché performare vuol dire mettersi in scena. E poi alla fine, in teoria, c’è un vincitore che piglia più punti per la sua interpretazione, per come ha adattato la performance.
E dove si compra?
H. E.: Al momento si compra sul mio sito e in alcuni bookshop di musei, come Museion e Kunst Merano.
‒ Sara d’Alessandro Manozzo
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