Pittura lingua viva. Parola a Sofia Silva
Viva, morta o X? Ventitreesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura "espansa" alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l'illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Sofia Silva nasce a Padova nel 1990. Laureata all’Università IUAV di Venezia e all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è legata al team di Turps Banana, magazine di pittura internazionale scritto ed edito da soli pittori. Sofia Silva scrive su quotidiani e riviste, italiani ed esteri (IL Magazine de Il Sole 24 Ore, Archivio, Il Tascabile e altri), e insegna pittura nella scuola gestita da Turps. Tra le sue ultime mostre: Les Pratiques Solitaires, THE VIEW, Genova, 2018; Chesky’s manor, on the matter of services, Taylor Macklin, Zurigo, 2018; Night Plinths, narrative projects, Londra, 2018. Il 2019 si apre con le collettive The Dream Follows The Mouth (Arcade, Londra) e Adrian, George, Peter, Sofia, Tamina (P420, Bologna).
Come ti sei avvicinata alla pittura?
Nel 1997 avevo sette anni, visitai per la prima volta la Biennale di Venezia nell’edizione di Germano Celant. In quell’occasione i miei genitori mi dissero testualmente: “Guardare le opere d’arte arricchisce la tua anima”. La frase mi piacque, arricchire la mia anima sembrava allettante quanto acconciare una bambola o decorare un mobiletto.
Un anno dopo mi capitò di visitare una mostra di pittura veneta del XIX secolo. Mi ritrovai dinanzi a un’immensa tela in cui un Giove in trionfo svettava tra nuvole rosa shocking. Un dipinto lezioso, borioso anche nel ricordo. La bambinetta disse all’opera: “Quadro, sei visibilmente brutto, anzi, fai schifo, ma sei un’opera d’arte dunque ora arricchisci la mia anima; intesi?”. Piena di sospetto, guardai la tela per due minuti interi e me ne andai via soddisfatta.
Chi sono i maestri o gli artisti, più o meno vicini, cui guardi?
Degli artisti amo le autobiografie, le parole. Se ho delle vicinanze, è nel pensiero; nell’opera, spero di essere distante. La mia filosofia pittorica si è costruita intorno ai diari, alle trascrizioni, a lettere e aforismi di tantissimi artisti d’età antica e moderna.
Parlando di artisti viventi, la mia comunità è grande, variopinta e costituita da artisti che pensano tanto; le conversazioni più rivoluzionarie avvengono con l’italiano Riccardo Baruzzi e con il cileno Humberto Poblete-Bustamante.
Se sentissi vicino il linguaggio visivo di un altro artista, sarei un cattivo lettore della sua opera. Starei noiosamente cercando me stessa, mentre l’artista deve saper essere uno spettatore estraneo. Nelle Lezioni di letteratura, Vladimir Nabokov scrive che cattivo lettore è chi cerca d’identificarsi nei personaggi del libro che legge. L’arte permette di entrare nell’inconscio visivo di innumerevoli persone, di vivere la diversità tra Io e gli altri. Detto questo, spaziando nei secoli, la mia anima adorata è quella di Giambattista Tiepolo.
Come si è evoluto negli anni il tuo lavoro?
Evoluzione? Nell’arte sono creazionista. In tutti i campi della vita penso sempre all’origine.
Cosa rappresenta per te il colore?
Il colore è mio complice nella sinestesia. La mia percezione emotiva delle arti e della letteratura si costruisce intorno ad atmosfere, impressioni e fantasie. Leggendo una scena d’omicidio può venirmi in mente un giardino; nulla è legato al contenuto della vicenda descritta, bensì alla sua forma, a una determinata temperatura della prosa. Così, guardando o utilizzando un colore, posso vedere il contrario di quel che il colore rappresenta a livello simbolico, naturale o di immaginario collettivo. Per me il rosso è in qualsiasi tono un colore freddo e il giallo è sempre sordo. I colori sono traduzioni individuali: di parole, suoni, stati mentali e fisici; non li uso con coerenza, mi piace circuirli, tradirli, ribaltare la loro tendenza alla narrazione o, al contrario, renderli normotici e tautologici.
Figurazione e astrazione: quando finisce una e inizia l’altra?
Utilizzo questa domanda per fare un po’ di guerriglia. Sono una pittrice militante e passo molte ore al giorno a guardare pittura (dal vivo, sui libri, in Internet); Luca Bertolo mi ha soprannominata “Pusher di quadri”. Cerco di non farmi sfuggire alcun pittore passato o vivente. Ha diciassette anni e dipinge nel garage dei nonni in Michigan? Probabilmente già lo conosco. Detto questo, da un po’ di tempo provo dispiacere per la maggior parte dei quadri in cui m’imbatto, quasi sempre queste opere fanno sfoggio di un forte apparato figurativo: sono rappresentazioni, immagini colorate con il pennello, non è pittura. Pittori ancora giovani ripetono schemi pseudo-figurativi creandosi stili-trappola: soffocante. La pittura è radicale o non è. Paint-ing è un verbo, un processo, un fare puro nel quale si manifesta un mondo. Dico sempre: la pittura presenta, non ha nulla a che fare con la rappresentazione.
Ogni opera d’arte degna di questo nome, figurativa o astratta, nasce inseguendo la logica dell’astrazione coltivata dal proprio autore. La figurazione priva di grande astrazione è solo illustrazione.
Come scegli i soggetti delle tue composizioni? Spazi da figure umane tracciate con segni veloci a nature morte ad associazioni e giustapposizioni eterogenee di dita, segni, occhi su sfondi quasi neutri…
Philip Guston è stato fondamentale; studiare la sua opera mi ha avvicinata al “vocabolario”. Da Guston in poi non ho più cercato soggetti, ho bensì iniziato a costruire un vocabolario di forme che potessero essere utilizzate come personaggi allegorici ripetuti a distanza di mesi o anche di anni in dipinti diversi.
Il dito assomiglia a Pierrot, è un personaggio tragico, a tratti grottesco, che si accompagna a un preciso carico sentimentale. Il fiore di cotone, invece, introduce una breve epifania del divino. Le mie forme portano in spalla saccocce colme di sentimenti. Nature morte? Riposano nelle loro tombe.
Ci vuoi raccontare il tuo progetto per Les pratiques solitaires a THEVIEW?
Un anno fa Vittorio Dapelo, il fondatore di THEVIEW, mi ha fatto scarpinare per la collina di Sant’Ilario mostrandomi svariati cimiteri di palme. Il killer delle palme è un coccinellone mostruoso, detto Punteruolo rosso. Ho prodotto un ciclo di opere su carta dedicate alla sessualità di quella bestia infoiata, sterminabile attraverso una tecnica definita “del maschio sterile”. Il rhynchophorus ferrugineus in versione sterile mi ha trasmesso un’emozione duchampiana.
Lavori in studio?
Lavoro in uno studio delle favole, al primo piano di un palazzo trecentesco dietro il Duomo di Padova. Condivido lo studio con una famiglia di scorpioni dei muri, alcuni gechi e due piccioni che nidificano sul balcone lordandolo ogni primavera.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, cinematografiche, musicali… La scrittura e la critica d’arte hanno un ruolo importante per te. Come influiscono e si relazionano con la tua pratica artistica?
Scrittura e psicoanalisi sono l’eredità che i genitori mi hanno trasmesso. Leggo tanta poesia, mentre nella prosa cerco cesellatura; sul comodino ora c’è Solstizio metafisico di Giovanni Comisso.
A ventitré anni ho cominciato a scrivere racconti brevi nonché articoli di arte e letteratura su quotidiani e riviste. Sono fiera di tutta la critica che ho scritto: quella d’elogio, quella d’attacco, quella su cui ho cambiato idea.
Le influenze… La critica d’arte mi ha resa sospettosa di ogni singolo gesto che compio sulla tela; la scrittura mi ha insegnato a essere una severa editor di me stessa. Il giornalismo mi ha permesso d’incontrare una precoce e totale caduta di dei, ideali, illusioni. Se il mito di tre diversi mondi culturali – arte, letteratura, giornalismo – cade quando non hai ancora trent’anni, c’è da fare attenzione.
Hai supporti, tecniche o formati che prediligi?
Di recente dipingo tele ampie, sui tre metri per quattro, e le faccio a pezzi. Di ogni tela conservo il brandello che per bellezza o bruttezza parla di più e lo incollo su un’altra tela. Così all’infinito. Il mio studio si è trasformato in un emporio della distruzione, nell’arca dei brandelli. Il collage mi aiuta a rompere il simulacro. Sono contraria all’illusorietà. Detesto il teatro in pittura. Taglio tutto.
Nelle mostre del 2019 presenterò le opere nate intorno a questo filone radicale della mia ricerca: abbattere il simulacro, allontanarsi il più possibile sia da painting as representation che da painting as object, in funzione di un mistero per cui probabilmente inventerò un neologismo. Per ora so solo che mi piace dimenticare le estetiche, dimenticarle tutte, avvicinarmi all’imbianchina, sicché gli amici artisti ogniqualvolta visitano il mio studio ridono dicendo: “Ho perso il filo del tuo processo”.
Perché fare pittura oggi?
La pittura è una disciplina d’origine arcaica, al pari del canto e della danza. Chi si chiede “Perché la pittura?” mette in discussione la storia dell’umanità. Perché ascoltare? Perché parlare?
Penso che si debba tornare a riflettere sul concetto di “intelligenza”, una parola in disuso ora che si apostrofa solo la “cultura”. Bisogna tornare a chiedersi, dinanzi a un’opera, se il pittore è intelligente.
Vivi tra Padova e Londra. Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea e della sua ricezione all’estero?
Ho studio a Padova e sono mentor presso la Turps School di Londra. Insegnare pittura, mostrare ai mentee come guardare il proprio pensiero, è il mestiere più gratificante del mondo. La ricezione della pittura italiana all’estero è un disastro. Quel poco che circola è merito degli stessi artisti che, frequentando determinate università estere o avviando progetti di scambio, sanno creare un tessuto di amicizie. In Italia vengono esposti pittori esteri poco interessanti, si dovrebbero invece mostrare più capolavori, specie quelli dei pittori che hanno precorso le grandi scoperte della pittura attuale: Raoul De Keyser, Forrest Bess, Roger Raveel, Martin Barré, Rose Wylie, Lee Lozano, Joan Brown, Tamuna Sirbiladze… Ricostruire nel nostro Paese una solida, difficile, cavalleresca, connoisseurship della pittura è la vera e unica missione.
Talking painting, painter’s painters, sfondare il linguaggio e tanto più disegno.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
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Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
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