Dopo la scomparsa dell’arte concettuale, la pittura-pittura aveva occupato tutti gli spazi espositivi, specialmente in Italia. Un piccolo gruppo di adepti della videoarte s’incontrava in alcuni rarissimi festival (come i ribelli di Matrix, in realtà parallele), un piccolo gruppo sempre uguale, in situazioni decentrate (Taormina, Locarno ecc.) con piccoli pubblici quasi sempre di addetti ai lavori.
Un primo segnale venne a metà degli Anni Novanta con l’improvvisa presenza di Bill Viola alla Biennale di Venezia nel Padiglione USA. Sensazione e sconcerto del pubblico, abituato alla situazione post/trans/avanguardia delle arti visive, allora molto legata al citazionismo. Ma ancora negli Anni Novanta i galleristi (anche d’avanguardia, anche di tradizione concettuale) chiedevano: “La videoarte? Ma come si vende?”. Bestia nera per le gallerie, era ancora più spaventosa per le istituzioni, dove i progetti di rassegne video venivano respinti per molte cause (fra cui i costi delle attrezzature) e appunto l’“immaterialità” del prodotto. Regione, Provincia e Comune andavano in crisi (ho assistito anche a crisi di nervi) davanti alle proposte di laboratori e centri di ricerca e produzione, peraltro già esistenti in tante città europee.
“Tutto avviene come nei vecchi film hollywoodiani sull’esplosione del successo attraverso successive rapide sequenze sovrapposte in dissolvenza“.
Nel 1980 uno studente dell’Accademia di Düsseldorf (quella di Beuys) usciva dagli studi sapendo usare il montaggio video e avendo sperimentato i primi computer. Nel frattempo nelle Accademie italiane i corsi classici si opponevano in ogni modo alla sperimentazione video e multimedia. Il Museo del Cinema mi faceva fare (ma con diffidenza) piccole rassegne e incontri con gli autori. Musei importanti mi permettevano di fare video sperimentali sulle mostre, salvo spaventarsi di fronte ai problemi di copyright dell’immagine e alla differenza fra documento e documento analitico. E più in generale le istituzioni, se accettavano interventi video/sperimentali, lo facevano con tremende paure, divieti e tabù.
Salto temporale. 2018. L’anno scorso vi sono stati infiniti festival in cui video e nuovi media sono stati utilizzati a tutti i livelli, dalla scenografia teatrale alle immense proiezioni su monumenti e palazzi, dal vjing al videomapping. Una rassegna fatta a Roma si chiamava addirittura Videocittà, con uso spericolato e invasivo del video in qualsiasi situazione urbana. Video d’arte nelle gallerie private, presentazioni video al Maxxi, proiezioni e videomapping su famosi monumenti romani come il Pantheon e altri, incontri convegni, dibattiti. Fra ottobre e novembre, tutto avviene come nei vecchi film hollywoodiani sull’esplosione del successo attraverso successive rapide sequenze sovrapposte in dissolvenza. La città è realmente video? Tutto bene, ma come mai non si sono create situazioni di produzione e sperimentazione promosse dalle istituzioni? E purtroppo non è ancora completamente vero che basta uno smartphone per proporre un video a un pubblico d’arte.
– Lorenzo Taiuti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47
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